La storia di Cristina - lettera di una “miracolata” dalla leucemia

    La storia di Cristina

    Lettera di una “miracolata” dalla leucemia che denuncia la scarsa attenzione dei media su chi salva le vite umane.

    Mi chiamo Cristina, ho 43 anni, una famiglia serena e un lavoro tranquillo, ma soprattutto mi ritengo una “miracolata”. Al compimento dei miei 40 anni, a distanza di dodici anni dalla prima gravidanza, mi sono accorta di aspettare un altro bambino. La sorpresa è stata duplice: sia perché era arrivata ad un’età che per una donna segna una tappa fondamentale, sia perché si era presentata a soli sei mesi di distanza dalla morte del mio affetto più grande: la mia mamma. Così, spinta da questa enorme gioia, ho effettuato i primi esami di routine previsti dal protocollo sanitario. Con il primo emocromo eseguito, anche senza essere un medico, mi sono subito resa conto che c’era qualcosa che non andava: i globuli bianchi (che hanno come intervallo di riferimento 4-10) erano a 92. Chiamai la mia ginecologa che il giorno dopo mi invitò a fare un ulteriore esame pensando ad un errore. Così mi presentai direttamente al laboratorio dell’ospedale San Giuseppe di Empoli dove mi fecero un altro prelievo. Dopo una ventina di minuti uscì un medico che, senza dirmi che cosa c’era nel mio sangue, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse di andare al reparto separato dell’ospedale dove mi stava aspettando un certo dottor Bernardeschi che mi avrebbe visitato con urgenza. Appena arrivata lessi nei cartelloni Reparto Oncologia Ematologia. Entrai dentro l’ambulatorio e mi presentai al medico: ancora oggi ricordo il suo sguardo, la sua meticolosità nel visitarmi: c’era qualcosa che non andava, era vero, ma mi sentivo sicura e protetta. La settimana successiva, in seguito a ulteriori accertamenti, la diagnosi: leucemia mieloide cronica. Quando ti senti dire questo il primo pensiero è: non può succedere proprio a me! In realtà non andò a me stessa ma al bimbo che portavo in grembo non sapendo se avrebbe mai potuto vedere la luce.

    Giorni di preoccupazione, di dolore e di paura, mesi che trascorrevano lentamente accompagnati sempre dalla costante presenza del dottor Bernardeschi che si era accollato il mio caso sia dal punto di vista umano che da quello medico, quasi come una sfida da portare a termine contro una malattia che lo aveva abituato a vedere quotidianamente la sofferenza e molto spesso, purtroppo, la morte. E così la mia gravidanza proseguiva, più la pancia cresceva più sentivo vicina la presenza del dottore e la sicurezza che riusciva a trasmettermi nei nostri incontri sempre più frequenti. Proprio in quel periodo il dottore mi presentò la dottoressa Maria Teresa Pirrotta, specializzata in LMC, la quale prese a seguire il mio caso assieme al dottore: la gravidanza seguiva il suo corso e più si andava avanti più i globuli bianchi diminuivano. Al settimo mese tutti tirammo un sospiro di sollievo, l’unico dubbio che rimaneva a questo punto era la normale crescita del feto, dato l’elevato numero di piastrine che avrebbero potuto impedire il regolare scambio di nutrimento. Alla fine esatta del tempo ginecologico Francesco vide la luce con parto naturale durato mezz’ora, fortunatamente senza complicazioni. Per due mesi ho provveduto anche ad allattarlo al seno, poi, visto che i globuli bianchi nel frattempo avevano ripreso a salire, il dottore e la dottoressa hanno ritenuto opportuno sospendere l’allattamento e iniziare la terapia col Glivec che a tutt’oggi, dopo oltre due anni, sto ancora facendo sotto il loro costante controllo. In questi tre anni ho avuto modo di frequentare il reparto di oncologia ematologica dell’ospedale di Empoli e ho visto cose impossibili da descrivere ma, nonostante l’angoscia che mi assale ogni volta che ci vado, so che c’è una cosa su cui tutti possono contare: la tranquillità che trasmettono i medici.

    È di poco tempo fa la notizia che in Inghilterra una donna è riuscita a portare a termine la sua gravidanza nonostante fosse affetta da LMC. La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo, mettendo giustamente in risalto l’attività svolta dai medici che l’hanno seguita. Allora io mi chiedo: perché in Italia non succede la stessa cosa? Perché il lavoro svolto dai nostri medici non viene ugualmente valorizzato? Eppure sono altrettanto bravi e magari, come nel mio caso, sono arrivati tre anni prima al brillante risultato ma nessuno li ha valorizzati. Quando parlo di “valorizzare” non intendo aumenti di stipendio o trasformazioni di contratti a scadenza con contratti a tempo indeterminato; bastava che chi di dovere gli avesse detto: “Bravi ragazzi, avete ottenuto un risultato straordinario riuscendo a salvare delle vite”! Invece solo un quotidiano locale ha dato risalto alla notizia. Ora, tramite questa lettera, chiedo a lei, professor Mandelli, e alla sua straordinaria équipe di intervenire per permettermi di ringraziare pubblicamente questi medici straordinari che per noi malati fanno un lavoro fondamentale e che invece troppo spesso sono scarsamente considerati proprio dalle strutture che più dovrebbero supportare il lavoro e la ricerca in generale».

    Testo tratto da Destinazione Domani anno 6 numero 2 – giugno 2011

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