La storia di Lucky

    La storia di Lucky

    Oggi per me è un giorno speciale, perché ho deciso di raccontarmi. E non lo dico tanto per dire: voglio accompagnarvi per quello che è stato il mio lungo viaggio “della speranza”, quel percorso che mi ha restituito la vita dopo avermi fatto precipitare, dopo tante preoccupazioni; almeno, ci provo.

    Tutto iniziò in febbraio del 2001, al Policlinico di Bari: a seguito di problemi di salute, e debite analisi, mi fu diagnosticata una grave malattia. Dopo una settimana di accertamenti in reparto iniziai con le terapie, e fu anche l’inizio di una strada lunga e certo non facile. Il mio male si chiamava “leucemia mieloide cronica”, una forma di tumore del sangue che parte da disfunzioni nel midollo osseo; il medico di Bari fu subito gentile ma fermo: “Venirne fuori si può, ma solo con un trapianto di midollo osseo”.

    Al Policlinico nel 2001 non c’era ancora un reparto di trapianto, mentre a quanto ne so è stato aperto e funziona bene da un paio d’anni a questa parte; insomma, dovetti spostarmi, e non certo qui dietro l’angolo. Un buon amico dei miei ci parlò del Gaslini, quell’ospedale pediatrico di Genova che spesso si nomina anche in TV, e a me sembrava distante mille miglia. Genova, Genova nel 2001 per me era stralontana. I miei genitori invece sembravano decisi, in men che non si dica trovarono contatti e disponibilità, e ad aprile eccoci al Gaslini, per un colloquio preliminare. Il trapiantologo mi sembrava un tipo un po’ buffo, vestito di rosso e giallo intenso, parlava con un sacco di vocali chiuse….

    Entrammo nel suo studio-segreteria non-si-sa-bene-che, ci sedemmo e subito vidi tanti disegni appiccicati alle pareti: disegni di bambini, si intende. “Per Dado da Luca”, “Dado quando fa le visite”, “grazie di tutto da Maria”… Questo tipo verso cui ero piuttosto diffidente, parlò con noi tre ore e passa. Ci spiegò tutto, dalla prima all’ultima virgola: capii cos’è la mia malattia, come nasce, come si cura, quali sono le fasi della guarigione, cosa avrebbe comportato il mio percorso… e capii che “paura” non era un termine che doveva entrarci. Questa fu la decisione che presi, e venni confortata dal piglio deciso e dolce insieme di questo “Dado” (vero nome Edoardo) che quasi quasi mi stava conquistando (..e che poi sarebbe diventato insostituibile “compagno di viaggio”).

    Nel frattempo, si attivò la pratica più importante: la ricerca di un donatore compatibile nel registro ADMO, in quanto né i miei genitori né mia sorella lo erano. Non dimenticherò facilmente la faccia di mio padre di fronte al medico che gli comunicava l’incompatibilità familiare, e quasi toccò a me confortarlo dicendogli che …qualcuno l’avremmo trovato! Allora ci fu una cosa meravigliosa, che mi diede la forza di combattere fino in fondo: il vedere tutti, amici e parenti, che ci chiedevano dove e come potersi iscrivere al registro. Per me. Il loro è un amore che non dimenticherò mai. Il mio donatore comunque venne dal Nord, naturalmente uno sconosciuto, e ad ottobre partii per il mio viaggio più lungo: sarei tornata a casa solo guarita, chissà quanto tempo dopo. Subito una settimana di controlli frenetici in Day Hospital, una settimana in cui se prima non conoscevo il Gaslini, lo imparai a memoria... dentista, oculista, radiologo, TAC, risonanze… non ricordo più tutto quello che feci! Dovevano “verificarmi” dalla testa ai piedi. Poi il catetere venoso che mi venne inserito, e il ricovero nel reparto di terapia intensiva: un passo di sconvolgimento totale. Le dinamiche di un reparto del genere sono particolarissime, perché quando si inizia con la chemioterapia, e si resta privi di difese immunitarie, anche un microbo può diventare un grosso problema. Bisogna passare col disinfettante ogni cosa che ci si porta dentro, dai giornali ai giochi, non si può entrare e uscire a piacimento… ci sono delle divise da infermieri che vengono date ai genitori, e se si vuole uscire si deve passare in una stanza-filtro e cambiarsi ogni volta.

    Mi trovai nella stanza n°5, piccola ma niente male, con la TV, ci passavo il tempo, mi portarono una Play Station per giocare, e persino un PC portatile, così potevo usare le mail per comunicare e svagarmi. Entrai ufficialmente nel grande mondo dei piccoli. Tutto quello che mi circondava, dai disegni sulle pareti alle videocassette che c’erano, tutto mi parlava di bambini. E poi loro, le diciannove infermiere giovanissime, forse la sorpresa più grande del mio viaggio. Difficile descrivere l’umanità, l’affetto, la protezione attenta e delicata che ho trovato in loro. Là, dove ci si sentiva isolati dal mondo, in una stanza con un’unica grande finestra sigillata, l’unico contatto col “fuori” erano gli splendidi tramonti sul mare, le tempeste che ci si ammiravano, e i racconti delle ragazze che mi hanno fatto da amiche e sorelle per mesi. In ogni circostanza non mi mancava mai ciò di cui avevo bisogno: nei medici trovavo partecipazione, simpatia, e sicurezza sconfinata, confidavo in loro più che in me stessa; con le infermiere non mancava mai la battuta di spirito, mi prestavano dischi e libri, mi portavano la “focaccia genovese” a colazione, mi mandavano sms… non è un caso se con molte di loro ho un rapporto ancora strettissimo.

    La mia guarigione richiese più pazienza e sopportazione di quanta ne avessi in corpo, e c’è stato il momento in cui ho toccato il fondo: un giorno c’era un problema, il giorno dopo altri due, stavo male certo, non mi reggevo più i piedi e se cadevo non riuscivo a rialzarmi. Ho pianto una volta, anche se mi ero proposta di non farlo mai, ma ormai mi sembrava che non ne sarei più uscita fuori, non sopportavo più niente, ero tentata di mollare. Mi sfogai tra le braccia di mio padre, e lui mi consolò dicendomi che la vita era una cosa troppo bella per lasciarla andare via così, che era un’avventura da non perdere e che valeva la pena. Quando pensavo di essere fuori dal buco nero, mi ci ritrovavo precipitata pochi giorni dopo, punto e a capo. Ma la speranza non l’ho persa mai, e come avrei potuto? Gli amici mi scrivevano sempre, lettere e messaggi che conservo con gelosia, c’erano i miei genitori e mia sorella accanto a me, e mille e più sorrisi che mi venivano rivolti dai miei nuovi amici. Così lentamente, scivolando e riprendendo, ho risalito la china, ed ora ne sono fuori del tutto. Ci sono voluti due anni, due anni di allegria e dolore, due anni in cui ho visto il mio corpo cambiare, deformarsi e poi tornare com’era.

    Due anni in cui purtroppo ho visto molti di coloro che mi affiancavano, molti piccoli desiderosi di vita, non avere la stessa mia fortuna. Il loro ricordo vivissimo mi dà tuttora la forza di guardare avanti, e di portare questa storia fuori dalle mura della mia casa, della mia vita. Nel frattempo quella città che mi sembrava lontana mille miglia è diventata la mia seconda casa, adesso aspetto trepidante il momento di andarci per i controlli, col piacere e l’entusiasmo di rivedere i miei amici, i miei posti, i miei colori, e quel mare che non smette di emozionarmi. Per questo oggi ho voluto fare un tuffo nel passato, con la speranza segreta che non sia stato inutile né noioso, perché in due anni ne accadono di cose, e mai avresti immaginato di poterle vedere o vivere in prima persona. E non è solo il ritrovarsi senza capelli e priva di forze, è anche un Natale particolare, i giochi inventati, l’assenza di privacy, i miei che si alternavano a vivere con me, creando cene e momenti da condividere, e tante emozioni che a volte diventano poesie, ma questa è un’altra storia che forse racconterò altrove.
    Le realtà parallele come quella del reparto di trapianto non sono lontane mille miglia come sembra… magari, basta solo girare lo sguardo...

    Lucky 

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