Hodgkin vai via!

    Era ottobre 2013, una mattina come tante, credevo.
    La solita sveglia, al solito orario e la solita lavata di faccia, con le dita e i palmi insaponati che arrivano fino al collo. Fu in quel momento che mi accorsi del "bozzo", come lo chiamavo io.
    All'inizio non mi allarmai, avvisai il mio medico curante, il quale mi prescrisse un antibiotico e poi mi disse di andare a controllo da lui, qualora non fosse scomparso. Non lo fece. Ricordo che fu molto duro quando mi disse che gli avevo omesso di riferirgli che il bozzo non ce l'avevo solo sul collo, ma anche sulla clavicola sinistra.

    Mi prescrisse subito una visita ematologica, al policlinico di Napoli.
    Ancora non avevo realizzato che la situazione fosse seria: certe cose, a 27 anni, non le realizzi tanto facilmente.
    Del giorno della visita con l'ematologo non ricordo quasi nulla, ma una sensazione bene stampata in mente mi è rimasta: ricordo che c'era il sole e che nonostante ciò non riuscivo ad "avvertirlo", forse i vetri delle finestre erano troppo spessi perché si potesse percepire l'atmosfera esterna.
    La scrupolosità del medico e dei suoi specializzandi, tutto quel tempo con la sonda durante l'ecografia e le facce dopo l'ago aspirato, mi agitarono parecchio. Volevo andarmene da lì, volevo uscire a sentire il calore del sole, non volevo più stare su quel lettino. Pensai ai miei capelli. Prima ancora che mi dicessero cosa avessi, pensai subito a loro. Ci avevo messo una vita ad averli lunghi e curati così, stavano prendendo il giusto garbo. Non so com'è che collegai, forse certi sguardi sono più eloquenti di mille parole, forse certe cose te le senti.

    La diagnosi arrivò poco dopo: linfoma di Hodgkin, terzo stadio.
    Non so come spiegarlo, ma è come se il mondo si fosse fermato, e insieme con lui, il mio respiro.
    È un passaggio traumatico attraverso una linea immaginaria che violentemente ti scaraventa nel lato cattivo, quello dove dovrebbero starci solo le persone malvagie, e allora ti senti smarrita, ti chiedi che ci fai tu lì, perché sei nel lato sbagliato. Il mondo esterno ti risucchia: analisi, tac, ecografie, ginecologo, fertilità, opportunità di guarigione, quanto starò male, quante chemio dovrò fare, il prelievo del midollo, quando cadono i capelli, e per finire... morirò?
    Ricordo ancora le ricerche disperate fino a notte fonda su siti internet per cercare di scoprire qualcosa di più su questa malattia, su questo incubo che mi aveva colpita e che mi stava costringendo a vedere medici, aghi, pareti grigie, le lacrime di mia mamma.

    Tutto mi sembrava remare contro e mi sentivo così sola, sfatta, sfiduciata, triste, impaurita. Poi però ho conosciuto lei, Cristina, volontaria AIL dal sorriso dolcissimo che mi accolse con un fare così cordiale, così amorevole, che per un momento mi sembrò perfino di dimenticare che ci fossi andata a fare in ospedale, quella mattina. Mi tenne compagnia tutto il tempo della chemio: due ore che a me parevano un'eternità. Mi spiegò che anche il figlio era stato malato, dieci anni prima, e che ora stava benissimo e che la faceva anche disperare! Mi mostrò una lista lunghissima di persone comuni, vip e sportivi che avevano combattuto questo male e che avevano vinto. Mi disse che la prossima volta avrebbe voluto vedermi con un manuale di diritto, perché mi dovevo laureare in giurisprudenza e che mi avrebbe aiutato a ripetere e mi offriva sempre delle caramelline a menta, che in certi momenti erano veramente la manna dal cielo!
    Io continuavo a chiedermi come avrei fatto ad affrontare tutto, e continuavo a pensare alla morte e poi ai capelli, ai capelli e poi alla morte.

    Mesi di inferno! Il culmine arrivò il pomeriggio prima di fare la pet tac di controllo, dopo quattro chemio. L'agitazione si impossessò di me. Piansi tutto il tempo, pensavo che stesse vincendo Hodgkin, pensavo che solo gli eroi combattono e vincono, ed io ero tutt'altro che un eroe. La notte più insonne della mia vita. La mattina ero così stanca tanto da chiudere gli occhi a ogni occasione: perfino mentre lavavo i denti. Erano appena le sette del mattino e già mi sentivo stanca.
    Una volta posizionata sul lettino, mentre scorrevo su e giù in quel tubolare freddo e silenzioso, il cuore iniziò a battere tantissimo, sembrava stesse per scoppiare! Pregai, cacciai anche qualche lacrima, chiusi gli occhi.
    Una lunghissima ora, passata a sperare con tutta l'anima che il bastardo stesse regredendo!
    Ci avrò messo davvero tutta me stessa, perché il bastardo stava regredendo!
    Ricordo che quando me lo comunicarono, mi sentii emozionata e invincibile anche poiché avevo avuto la conferma di essere controllata da un ottimo team di medici e coccolata da meravigliose volontarie: niente e nessuno poteva compromettere più la mia salute, fisica e mentale.

    I giorni di gloria, però, finirono quando una mattina, esattamente dopo sei chemio, trovai abbondanti ciocche di capelli sul cuscino. Rimasi a guardarle per interi minuti, avevo paura a guardarmi allo specchio. Benché ci fosse in gioco qualcosa di molto più importante, credo sia sempre traumatico questo aspetto della malattia per una donna. Il disagio è tantissimo. Ci si sente private di una peculiarità così distintiva per una donna, che si fa fatica ad accettare se stesse. Superai il trauma con non poche difficoltà grazie agli infermieri del mio reparto: erano gli unici a non farmi sentire diversa, fuori luogo, non ci facevano nemmeno caso, e dopo un po', neanche più io. Se ci penso, non lo so nemmeno io com'è che ho fatto!

    Continuai il mio percorso, con un atteggiamento diverso rispetto all'inizio, anzi, sarebbe più corretto dire che la persona che lo ha iniziato non è la stessa che lo ha concluso.

    Sette mesi di terapie, durante le quali ho imparato a fare l'uncinetto (vabbè lo ammetto: solo la catenella!), a lamentarmi di meno e sorridere di più, ad affrontare le sfide con grinta e tenacia, ad apprezzare le piccole cose, a rendere grazie alla vita e a chi mi ha presa per mano e ha fatto un pezzettino di strada insieme a me, ma soprattutto, ho imparato ad amare e amarmi di più, esattamente così come sono, senza troppe paranoie.

    E se posso farlo, questo lo devo alla ricerca e all'AIL, perché il loro contributo nella mia vita è stato fondamentale. La malattia ti può togliere tante cose, ma ti arricchisce per tutta la vita di un dono speciale: la possibilità di rendere grazie!

    Grazie AIL!

    Francesca

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