La storia di Don Girolamo Venco
Gli ultimi tre mesi trascorsi in Guatemala nella parrocchia di Tajmulco (la mia parrocchia: 300 km quadrati di estensione e cinquantamila abitanti, di cui il 99% di etnia Mamm), erano stati di super lavoro. Avevamo costruito 14 nuove cappelle in altrettanti villaggi e per benedirle mi ero recato da un villaggio all’altro: su e giù a dorso di mulo per sentieri di montagna, in viaggi che duravano anche giorni. Alla fine di quel tour de force mi sentivo molto, molto stanco. Per questo ero contento di tornare in Italia. Non solo sarei stato vicino a mia madre, malata, ma avrei potuto rimettermi in forze. Il 30 aprile 1997, dunque, rientro a Vicenza. Avevo due mesi di tempo prima di ripartire. Pensavo sarebbero stati sufficienti.
Invece…Invece con il passare dei giorni lo stato di spossatezza non passava. Così, approfittando del fatto che dovevo fare qualche piccolo controllo, mi sono sottoposto ad alcuni esami medici. L’esito è stato a dir poco sconvolgente: avevo una leucemia mieloide cronica! Per ulteriori accertamenti mi reco al reparto di ematologia dell’Ospedale di Vicenza, dove una dottoressa molto gentile mi fa l’emocromo che purtroppo conferma la diagnosi iniziale. Per sconfiggere la malattia avrei dovuto affrontare il trapianto del midollo osseo. Ricordo che in quel frangente pensai al Guatemala e al lavoro che dovevo ancora svolgere. La mia attività pastorale mi attendeva, non potevo né volevo trascurarla troppo a lungo. Iniziai comunque la terapia finché non arrivò il momento di ripartire. Certo, sarebbe stato meglio non interrompere la cura, ma se proprio dovevo andare – mi dissero i medici – almeno che non stessi via troppo. Il mio nuovo soggiorno in Guatemala durò un mese. Trenta giorni durante i quali ho ricevuto tantissime espressioni di solidarietà: preti e laici della mia parrocchia si preoccupavano unicamente di come stessi, non desideravano altro che guarissi e pregavano il Signore per me. Uno di loro, addirittura, dopo che ero tornato in Italia per riprendere la cura, mi scrisse via e-mail: “Oggi accendo una candela a Cristo luce del mondo, e questa candela non si spegnerà finché lei non mi dirà che è guarito!”. Rincuorato e sostenuto da tutte quelle manifestazioni di solidarietà, ho portato a termine la prima fase della terapia.
Ora bisognava affrontare il trapianto. La prima cosa era trovare un donatore: fortunatamente mia sorella Bertilla risultò compatibile al 100%. Per procedere non mancava che il mio consenso all’intervento. Dovevo prestarlo per iscritto. Quando il medico me lo comunicò, presi due o tre giorni di tempo per decidere, durante i quali mi sentii profondamente solo, solo davanti a Dio. Alla fine, comunque, firmai. Incominciò allora tutta la fase della preparazione, la raccolta delle cellule staminali, poi del midollo ecc. Nel febbraio 1998 entrai nella stanza sterile, fu più semplice di quel che pensassi: mi hanno trasfuso in appena due sere. Quindi è iniziato il cammino verso la guarigione. E non è stata una passeggiata. Giorno e notte flebo, difficoltà a deglutire: insomma ci sono stati momenti abbastanza duri. Dopo quindici, venti giorni, era la domenica delle Palme o forse Pasqua, un’infermiera mi disse che c’erano buone notizie: si erano formati globuli nuovi. Per sicurezza mi fecero un altro prelievo; dopo un’ora una dottoressa mi raggiunse annunciandomi con gioia che il midollo aveva attecchito! È stato un momento straordinario, speciale!
Poi ne sono seguiti anche di meno belli, momenti in cui mi sono lasciato prendere dal pessimismo. Momenti in cui, andando a dormire, non sapevo se all’indomani mi sarei svegliato, e se sarebbe importato a qualcuno. Questa cosa faceva arrabbiare moltissimo mia sorella, che per scuotermi mi diceva: “E allora non ti interessano proprio niente tutti gli sforzi e le fatiche che abbiamo fatto?!?”.
Aveva ragione a scuotermi. Così tra alti e bassi, momenti in cui stavo meglio ed altri in cui mi sentivo stanco, sono andato avanti. Mi hanno aiutato e sostenuto la premura, l’attenzione e la professionalità dei medici, la disponibilità sorridente di tanti infermieri e infermiere, il calore umano disinteressato dei volontari AViLL-AIL, l’amore e l’affetto dei miei familiari e dei confratelli della mia congregazione; ma credo profondamente che senza l’aiuto del Signore e le preghiere che in molti gli hanno rivolto perché guarissi non ce l’avrei fatta.
Adesso sono passati tre anni e avrei ancora tanto da raccontare di questa mia “telenovela”. Ho imparato anche molte cose. Per esempio a come avvicinarmi agli ammalati senza pretendere di dire niente, solo star loro vicino. Mi fa meno paura la malattia, l’handicap, la persona “minus valida” come diciamo in spagnolo, perché anche lì c’è una grande ricchezza.
Ho dovuto dipendere dagli altri e mi è pesato molto, ma ho reagito. Ringrazio Dio che ha permesso la malattia del corpo, però nello Spirito mi ha sempre sostenuto.
Storie di combattenti