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  • Trombocitosi e Trombocitemia in età pediatrica

    CHE COS'E' LA TROMBOCITOSI?
    Trombocitosi o piastrinosi è un termine medico utilizzato per indicare l’aumento del numero delle piastrine circolanti rispetto al livello massimo normale, che nell’adulto è definito da una conta piastrinica superiore a 450.000/mm3.
    Nei bambini, soprattutto più piccoli, è frequente il riscontro di un numero più elevato di piastrine, fino a raggiungere valori di 1.000.000/mm3.

    QUAL E' LA CAUSA DELLA TROMBOCITOSI?
    Un elevato numero di piastrine può essere dovuto a varie cause, riassumibili in due processi patogenetici:


    • una maggior produzione di piastrine a livello midollare. 

    • una minor rimozione delle piastrine da parte della milza, che si verifica dopo l’asportazione chirurgica della milza (splenectomia).
Nella maggior parte dei casi la trombocitosi è causata da un’aumentata produzione di piastrine.

    QUALI E QUANTI SONO I TIPI DI TROMBOCITOSI?
    In base alle cause che danno origine ad un aumento del numero delle piastrine, è possibile identificare due grandi gruppi: le trombocitosi primitive e le trombocitosi secondarie, molto frequenti nei bambini. 
Le trombocitosi primitive sono dovute a patologie midollari, in particolare i disordini mieloproliferativi cronici che comprendono tra gli altri la trombocitemia essenziale (TE), di cui la trombocitosi è caratteristica.
    Altre forme di trombocitosi primitiva comprendono le forme ereditarie, non neoplastiche, e le forme familiari, vere e proprie neoplasie mieloproliferative familiari. L’incidenza annuale delle trombocitosi primitive sotto i 20 anni è di circa 1-4 casi ogni 10 milioni, 60 volte più bassa rispetto agli adulti. L’età media alla diagnosi è di 14-15 anni, più bassa nelle forme ereditarie.
    
Le trombocitosi secondarie o reattive sono caratterizzate da un aumento delle piastrine secondario alla stimolazione della produzione midollare o alla splenectomia e rappresentano le forme più frequenti nei bambini, soprattutto nei primi anni di vita. L’incidenza stimata è di circa 600 casi ogni milione di bambini.

    QUALI SONO LE CAUSE DI UNA TROMBOCITOSI REATTIVA?
    Le cause di una trombocitosi reattiva possono essere:


    • infezioni (batteriche o virali), soprattutto quelle che colpiscono l’apparato respiratorio e/o gastrointestinale, frequenti nei bambini. Nel caso delle infezioni, sembra che l’aumento delle piastrine sia dovuto all’azione di particolari sostanze, le citochine, prodotte in quantità anomala nel processo di difesa dalle infezioni. Il numero delle piastrine, di solito, torna nella normalità con la risoluzione dell’infezione
    • anemie, in particolare quella sideropenica (da carenza di ferro)
    • malattiE infiammatorie croniche, tra cui la più frequente nei bambini è la celiachia
    • emorragie acute
    • traumi o interventi chirurgici, in cui l’aumento della conta piastrinica si verifica soprattutto quando viene danneggiata un cospicua quantità di tessuto;

    • farmaci, soprattutto i cortisonici; ma, una piastrinosi può verificarsi anche nella fase di ripresa dopo chemioterapia
    • milza poco attiva o assente: essendo la milza un organo coinvolto nella normale distruzione delle piastrine, la sua rimozione (splenectomia) o perdita di funzionalità (per esempio nell’anemia a cellule falciformi) può provocare una piastrinosi di varia entità.

    QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DELLA TROMBOCITOSI PRIMITIVA NEI BAMBINI?
    La TE, frequente negli adulti, è rarissima nei bambini. Insieme alla policitemia vera (PV) e alla mielofibrosi primaria fa parte delle neoplasie mieloproliferative croniche Philadelphia negative. La conoscenza di questi disordini è migliorata a partire dal 2005, anno in cui sono state identificate mutazioni somatiche del gene codificante per una tirosin-chinasi, la Janus Kinase 2 (JAK2) nella maggior parte dei pazienti con PV ed in circa il 50-60% di quelli con TE. La mutazione del gene produce una proteina anomala che stimola la crescita incontrollata dei precursori emopoietici della linea mieloide che ne sono provvisti.
Nei primi studi su bambini con una diagnosi di TE, la mutazione JAK2 era risultata essere presente in una percentuale significativamente inferiore (<30%). Successivamente, è emerso che una cospicua percentuale di bambini diagnosticati come TE (circa 30%) presentava una mutazione diversa, MPLS505A, a carico del recettore della trombopoietina, una sostanza che regola la produzione di piastrine. Questa mutazione caratterizza le forme non neoplastiche di trombocitosi ereditarie. 
Recentemente, in circa 2/3 di pazienti adulti con TE o mielofibrosi primaria, in cui erano assenti mutazioni di JAK2, sono state individuate mutazioni a carico di un altro gene, che codifica per una proteina, la Calreticulina (CALR), che, quando mutata, provoca un’incontrollata proliferazione cellulare. Con la scoperta della mutazione di CALR, meno del 10% di adulti con TE non presenta mutazioni note.
Nei bambini e adolescenti con TE senza mutazioni di JAK2, la mutazione del gene CALR è stata riscontrata in meno della metà dei pazienti. Attualmente, in circa il 40% di bambini con trombocitosi primitiva non sono state identificate mutazioni.

    QUALI POSSONO ESSERE I SINTOMI D'ESORDIO DI UNA TROMBOCITOSI IN UN BAMBINO?
    Dal punto di vista clinico, i sintomi legati ad un aumentato numero di piastrine sono presenti in un limitato numero di bambini e sono aspecifici (cefalea), nella maggior parte dei casi. Spesso, nei bambini, il riscontro di un elevato numero di piastrine è casuale. Sono molto rari i sintomi quali vertigini, ronzii, parestesie periferiche, disturbi della vista, bruciore alle mani ed ai piedi accompagnato da arrossamento e calore frequenti negli adulti.

    QUALI SONO LE COMPLICANZE DELLA TROMBOCITOSI?
    Negli adulti affetti da TE, le complicanze più frequenti sono gli eventi trombotici, mentre più rari sono quelli emorragici. Un aumentato rischio di sanguinamento è dato da una conta piastrinica >1500x109/L. I fattori di rischio trombotico sono legati all’età (>60 anni) e ad altri fattori, quali: precedenti eventi trombotici, diatesi trombofilica, ipertensione, ipercolesterolemia, fumo e diabete. In età pediatrica le complicanze emorragiche e/o trombotiche sono rarissime.

    QUALI ESAMI SONO NECESSARI PER LA DIAGNOSI E IL MONITORAGGIO DELLA TROMBOCITOSI?
    Se l’esame emocromocitometrico evidenzia una piastrinosi, prima di tutto bisogna valutare il numero delle piastrine e l’eventuale presenza di una condizione che ne può provocare l’aumento. Qualora i sintomi clinici e gli esami di laboratorio siano suggestivi di una trombocitosi secondaria, è necessario individuare e trattare la causa scatenante. In caso di persistente piastrinosi e/o presenza di segni e sintomi indicativi di una sindrome mieloproliferativa e/o anamnesi positiva per trombocitosi ereditaria, si effettuano esami specialistici. Con un prelievo di sangue venoso periferico è possibile eseguire le indagini di biologia molecolare che ci permettono di individuare la presenza di mutazioni dei geni JAK2, MPL e CALR. Sempre da sangue venoso periferico è possibile eseguire studi aggiuntivi, utili alla conoscenza della malattia e all’individuazione di eventuali fattori di rischio trombotico o emorragico. I pazienti con diagnosi di trombocitemia primitiva con o senza mutazioni geniche, devono eseguire periodicamente controlli clinici ed esami ematochimici. L’agoaspirato midollare e la biopsia osteomidollare vengono eseguite nei pazienti con diagnosi di TE JAK2 o CALR mutati, subito dopo la diagnosi, ed in quelli senza mutazioni con piastrine persistentemente alte.

    QUAL E' IL TRATTAMENTO DEI BAMBINI CON TROMBOCITOSI?
    Il trattamento della trombocitosi secondaria prevede una terapia specifica per risolvere la causa che la scatena. 
Nelle trombocitosi primitive l’obiettivo della terapia è quello di ridurre le complicanze tromboemboliche ed emorragiche, sia negli adulti che nei bambini. L’obiettivo non è quello di far tornare e mantenere un numero normale di piastrine. 
La terapia è di due tipi: la terapia antiaggregante, con effetto sull’aggregazione piastrinica, e la terapia citoriduttiva. Il farmaco antiaggregante di uso più frequente è l’acido acetilsalicilico (ASA); in alternativa, in quei pazienti che mostrano controindicazioni alla terapia con aspirina (allergia, patologie gastrointestinali, etc), viene utilizzata la ticlopidina.
I farmaci citoriduttori, che servono a ridurre il numero delle piastrine, sono diversi. L’idrossiurea (oncocarbide), chemioterapico antimetabolita, è ben tollerato e permette un buon controllo delle complicanze vascolari. Il trattamento prolungato sembra aumentare il rischio di evoluzione leucemica solo nei pazienti anziani con TE, mentre non viene osservato nei pazienti diagnosticati in età pediatrica e trattati per lungo tempo.
L'interferone-α, che possiede attività antiproliferativa sulla linea megacariocitaria, viene utilizzato nei pazienti più giovani, in quelli con intolleranza verso altri farmaci citoriduttivi e in gravidanza. I problemi legati all'impiego dell'interferone-α sono la modalità di somministrazione (sottocute e giornaliera) e gli effetti collaterali (astenia, sindromi simil-influenzali, nausea e vomito), oltre ad avere un costo elevato.  
L’Anagrelide è un farmaco ad attività inibitoria dell’aggregazione piastrinica che si è dimostrato un potente piastrinopenizzante. Come effetto collaterale, può dare cefalea e disturbi gastrointestinali.Per quanto riguarda i bambini, l’impiego degli antiaggreganti e/o dei farmaci citoriduttivi deve essere limitata a casi particolari, sia per gli effetti collaterali delle terapie impiegate sia perché la maggior parte delle trombocitosi pediatriche sono secondarie e/o benigne

    A cura di: Fiorina Giona, Marica Laurino
    Ematologia, Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia, Università Sapienza, Roma

  • Leucemie acute mieloidi del bambino

    Tra le malattie del compartimento mieloide più comuni nel bambino vi è la leucemia acuta mieloide.

    CLASSIFICAZIONE
    Una combinazione di morfologia, immunofenotipo e studi di citogenetica sono necessari attualmente per porre diagnosi di LAM del bambino.
    La classificazione recente della World Health Organization (WHO) che include l’analisi citogenetica per la classificazione delle LAM dell’adulto si è dimostrata valida anche in età pediatrica. Importante soprattutto l’analisi immunofenotipica per la caratterizzazione e la diagnosi della leucemia megacarioblastica, della forma con minima differenziazione e delle forme miste (bifenotipiche e mixed).

    ALCUNI PARTICOLARI SOTTOTIPI
    T(8;21)
    Benché sia stata riportata recentemente l’origine di questa traslocazione in utero, tale tipo di leucemia è rara prima dei 3 anni. La chemioterapia intensiva con alte dosi di citarabina determina anche in età pediatrica delle ottime risposte e la persistenza del trascritto di fusione originato dalla traslocazione 8;21, chiamato AML/ETO non è sempre indicativo di persistenza di malattia.
    Due recenti segnalazioni del Gruppo Inglese MRC hanno dato una sopravvivenza a 5 anni di tale forma dell’80%.

    Inv(16)
    Associata a tale forma di leucemia vi è un alto tasso di mortalità precoce, legato all’infiltrazione degli organi da parte dei blasti e al rilascio di sostanze tossiche. La persistenza a livello molecolare del trascritto dopo il consolidamento può essere indicativo di alto rischio di recidiva.
    E’ ancora in discussione la migliore forma di terapia di induzione, con o senza alte dosi di citarabina.

    T(9;11)
    Tale forma rappresenta il 15% dei casi di AML. Il gene interessato (11q23) può riarrangiarsi con almeno 50 partners genici: la traslocazione t(9;11) sembra essere quella a prognosi più favorevole in età pediatrica, tra tutti i riarrangiamenti della zona 11q23.

    FORMA MEGACARIOBLASTICA
    L’età mediana di insorgenza è 2 anni e rappresenta il 15% delle forme pediatriche ed il 50% delle forme leucemiche nella sindrome di Down. E’ stata descritta anche come forma transiente nei nuovi nati con sindrome di Down. Sono frequenti lesioni ossee e lesioni extramidollari e la diagnosi può essere difficile per l’ipocellularità frequente dell’aspirato midollare. L’analisi citogenetica rivela il più delle volte un cariotipo complesso.
    Più dell’80% dei bambini affetti da tale patologia raggiungono la remissione completa.

    I fattori prognostici più importanti nel bambino sono il numero di globuli bianchi all’esordio (superiori ai 100.000/mmc sono associati ad una prognosi sfavorevole) e altri fattori come leucemie secondarie o presenza di alterazioni citogenetiche sfavorevoli (monosomia 7).Una recente mutazione scoperta con la biologia molecolare, detta FLT3, risulta avere un peso prognostico sfavorevole soprattutto in età pediatrica; la sua frequenza è pari al 10-15%. Altre alterazioni molecolari frequenti sono quelle del core binding factor, che nei bambini risultano spesso nella mutazione C-KIT (esone 8 e 17); la mutazione NPM1 si riscontra nel 5-10% dei casi pediatrici, frequentemente associata con FLT3. Un caso particolare rappresentano i bambini affetti da Sindrome di Down, perchè hanno un rischio aumentato di leucemia acuta nei primi 3 anni di vita, soprattutto mieloidi. Queste vanno distinte da quadri mieloproliferativi transitori, visibili nei bambini Down in età neonatale, perchè possono mimare la leucemia acuta, ma non richiedono trattamento e si risolvono in genere spontaneamente. I trattamenti in questi bambini sono generalmente meno intensivi ed il trapianto in prima remissione non è indicato, vista la buona prognosi.
    Il trattamento di una leucemia acuta mieloide nel bambino è la chemioterapia, attraverso 2 fasi: induzione e terapia post-remissionale. La terapia di induzione si avvale, come nell’adulto, dell’associazione di citarabina-arabinoside e di un antraciclinico, vi sono schemi di terapia di induzione, a tre o quattro farmaci della durata di 7-10 giorni.
    Diverse strategie di intensificazione della terapia di induzione sono state utilizzate, sostituendo farmaci antraciclinici, incrementando il dosaggio della citarabina o riducendo il tempo di somministrazione tra un ciclo e l’altro, ma i risultati ottenuti non modificano la percentuale di remissioni complete ottenute con lo schema di chemioterapia convenzionale.
    Tre farmaci sono stati sperimentati negli ultimi anni nella LAM in età pediatrica. Il Gentuzumab Ozogamicin (anti CD33) è risultato essere attivo in pazienti resistenti, con scarso profilo di tossicità (eccetto il rischio di grave epatopatia con occlusione delle vene intraepatiche) ed è stato incluso in numerosi protocolli sperimentali, sia in induzione che in fase di consolidamento per il trattamento di pazienti all’esordio.
    La clofarabina è un analogo nucleotidico che inibisce in maniera potente la sintesi del DNA e la DNA polimerasi, registrata attualmente per pazienti resistenti/recidivati con linfoblastica acuta. Nella LAM in età pediatrica ha avuto efficacia limitata (se utilizzata come singlo farmaco) con 1/35 casi di remissione completa e 8/35 remissioni parziali.
    Il terzo farmaco in sperimentazione è la daunorubicina liposomiale, dotata di minore cardiotossicità, che insieme alla citarabina ha indotto il 67% di remissioni in bambini in recidiva/resistenza. Altri farmaci in sperimentazione sono gli inibitori tirosin-chinasici (imatinib e dasatinib) per le mutazioni del c-KIT e gli inibitori di FLT3.
    La terapia post-remissionale nel bambino, può comprendere diversi cicli di chemioterapia o il trapianto di midollo allogenico e questo dipende dal protocollo utilizzato e dalle diverse esperienze dei diversi gruppi internazionali. Questi cicli di chemioterapia si basano sui farmaci usati durante l’induzione ed includono sempre alte dosi di citarabina. Ad esempio il protocollo MRC del gruppo cooperativo inglese utilizza 3 o 4 cicli di chemioterapia dopo l’ottenimento della remissione completa.
    La terapia di mantenimento non viene usata nelle leucemie acute mieloidi, perchè è stato dimostrato che non aumenta la sopravvivenza.
    Due differenti approcci sono emersi negli ultimi anni riguardo al trapianto di midollo allogenico nei bambini, in base ai diversi protocolli utilizzati: il primo prevede che i pazienti che hanno caratteristiche prognostiche favorevoli non vengono di solito trapiantati in prima remissione completa, ma solo all’eventuale recidiva, mentre il secondo offre la possibilità del trapianto in prima remissione se esiste un donatore familiare compatibile, perché si crede che tale tipo di approccio sia migliore, in termini di risultati rispetto alla chemioterapia.
    Durante tali terapie rimane sempre importante la terapia di supporto, e soprattutto il ricovero in centri di ematologia pediatrici specializzati, dove è possibile la terapia adatta (ad es. trasfusioni filtrate ed irradiate, trattamento delle infezioni durante la chemioterapia, supporto psicologico al bambino e alla famiglia).
    La profilassi del sistema nervoso centrale riveste un ruolo minore rispetto al trattamento delle leucemie acute linfoidi, anche perchè nelle mieloidi si usano alti dosaggi di farmaci chemioterapici che passano la barriera emato-encefalica e che hanno una efficacia anche in questo senso. Fattori associati al coinvolgimento del sistema nervoso centrale sono risultati essere: l’iperleucocitosi all’esordio, le forme monocitiche (M4 o M5) e la giovane età. Le forme di trattamento includono associazioni chemioterapiche di farmaci intracraniali e la radioterapia. Una recente esperienza del St Jude Hospital ha riportato che il coinvolgimento del sistema nervoso centrale non è un fattore prognostico avverso all’ottenimento della remissione completa.

  • Leucemie mieloidi croniche in età pediatrica

    Fiorina Giona, Sabrina Mariani
    La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è una patologia rara in età pediatrica. Rappresenta meno del 3% di tutte le leucemie infantili.
    L’incidenza annuale è meno di 1 caso per milione nei soggetti di età inferiore ai 14 anni e di 1-2 casi per milione negli adolescenti. E’ sporadica nei bambini di età <4 anni, mentre è eccezionale nei neonati (finora è stato riportato un solo caso con una diagnosi a 12 mesi).
    Non sembrano esserci predisposizioni genetiche o etniche.

    LE CARATTERISTICHE DELLA LMC PEDIATRICA SONO SIMILI A QUELLE OSSERVATE NELL'ADULTO? 

    Come nell’adulto, la LMC che colpisce i bambini è caratterizzata nel 95% dei casi dalla presenza del cosiddetto cromosoma Philadelphia, che si forma in seguito ad una traslocazione di un frammento di cromosoma 9 sul cromosoma 22. Il trasferimento di materiale genetico da un cromosoma all’altro porta alla formazione di un nuovo gene, BCR-ABL, derivante dalla fusione del gene ABL, originariamente situato sul cromosoma 9, con il gene BCR, localizzato sul cromosoma 22. Il nuovo gene ibrido BCR-ABL produce una proteina anomala attiva, una tirosin-chinasi, che gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della malattia, inducendo la trasformazione neoplastica e la crescita incontrollata di cellule midollari apparentemente normali. Nel 5% dei casi in cui non è presente il cromosoma Philadelphia, è possibile, comunque, dimostrare la presenza del riarrangiamento genico BCR-ABL attraverso le tecniche di biologia molecolare.
    La storia naturale della LMC in età pediatrica è simile a quella negli adulti ed è caratterizzata da tre fasi: una fase cronica, una fase intermedia non sempre identificabile, definita accelerata e una fase finale di acutizzazione, la crisi blastica, che può presentarsi anche all’esordio e con un quadro simile alla leucemia acuta. Circa il 95% dei bambini viene diagnosticato in fase cronica. Nei casi in cui la malattia esordisce in crisi blastica, senza una precedente fase cronica identificabile, è quindi impossibile distinguere una crisi blastica di LMC da una leucemia acuta in cui è presente il cromosoma Philadelphia.

    QUALI POSSONO ESSERE I SINTOMI D'ESORDIO DI UNA LMC IN UN BAMBINO?

    I sintomi d’esordio sono spesso irrilevanti e aspecifici; in alcuni casi la diagnosi è occasionale. Facile stancabilità, astenia, pallore, febbre o febbricola, dolori osteomuscolari, inappetenza con perdita di peso, difficoltà alla digestione, tensione e sensazione di ingombro addominale (dovuti ad aumento di volume della milza) sono i sintomi più frequentemente osservati; mentre quelli più rari, ma che possono comportare un ritardo nella diagnosi, sono i dolori ossei diffusi, alterazioni dell’equilibrio ed il priapismo.
    All’esame fisico, un ingrossamento della milza (splenomegalia) è molto frequente (70-80% dei casi) e, a volte, può raggiungere dimensioni tali da causare un aumento di volume dell’addome; un aumento delle dimensioni del fegato è meno frequente (circa 40-60% dei casi). Il riscontro di un aumento di volume dei linfonodi deve orientare verso altre patologie, perché non è caratteristico di questa malattia.

    QUALI ESAMI SONO NECESSARI PER LA DIAGNOSI E IL MONITORAGGIO DELLA MALATTIA?

    Gli esami di laboratorio evidenziano un aumento del numero dei globuli bianchi, ed in particolare dei neutrofili, con valori pari o maggiori di 20.000/mm3, con presenza di alcuni elementi immaturi normalmente presenti nel midollo osseo (mielociti e metamielociti). A volte può essere presente un aumento del numero delle piastrine (piastrinosi) e/o un’anemia. In caso di sospetto diagnostico, è necessario effettuare una visita specialistica ematologica, un emocromo con esame microscopico dello striscio di sangue venoso periferico ed un prelievo di midollo osseo. L’esame microscopico dello triscio di sangue venoso periferico rileva la presenza di cellule immature normali, che dovrebbero essere presenti solo nel midollo osseo. La conferma della diagnosi si ottiene con l’esame citogenetico (studio dei cromosomi eseguito su cellule di sangue midollare o periferico) che può evidenziare il caratteristico cromosoma Philadelphia, e con le tecniche di biologia molecolare che dimostrano la presenza del gene di fusione BCR-ABL. L’analisi citogenetica e le indagini di biologia molecolare, essendo metodiche molto sensibili, capaci di svelare anche una piccola quota di cellule leucemiche, sono quindi utilizzate, oltre che alla diagnosi, anche durante la terapia per valutare il grado di risposta al trattamento e/o per evidenziare la eventuale persistenza di malattia (studio della malattia minima residua).
    Analogamente a quanto stabilito per gli adulti, la risposta alla terapia viene valutata secondo criteri ben definiti:

    • Risposta Citogenetica Completa: Assenza del cromosoma di Philadelphia all’analisi del cariotipo;
    • Risposta Molecolare Maggiore: Presenza del trascritto BCR-ABL al di sotto di un certo livello soglia all’analisi molecolare;
    • Risposta Molecolare Completa: Assenza del trascritto BCR anche con le metodiche più sensibili di biologia molecolare.

    QUAL E' IL TRATTAMENTO DEI BAMBINI CON LMC?

    Negli ultimi anni, la storia naturale della LMC ha subito un profondo cambiamento con l’introduzione nella pratica clinica di un farmaco “intelligente”, l’Imatinib mesilato (Glivec®), in grado di bloccare selettivamente la tirosin-chinasi codificata dal gene di fusione BCR-ABL, che ha un ruolo fondamentale per la sopravvivenza delle cellule leucemiche.
    Prima della disponibilità di questo farmaco, il trapianto allogenico di cellule staminali, meglio conosciuto con il nome di trapianto di midollo osseo (TMO) era considerato l’unica terapia eradicante curativa, soprattutto nei pazienti trapiantati in fase cronica. Gli studi finora pubblicati evidenziano che i risultati del trapianto allogenico nei bambini sono condizionati da diversi fattori, quali la fase di malattia in cui è stato eseguito il trapianto, la fonte di cellule staminali utilizzata (donatore familiare o volontario) e l’intervallo di tempo tra la diagnosi di LMC ed il trapianto. In uno studio su bambini e adolescenti in prima fase cronica sottoposti a trapianto tra il 1982 e il 2004, dopo 3-5 anni dal trapianto la sopravvivenza libera da eventi è risultata essere del 61-63% e la sopravvivenza del 66-87%, in quelli trapiantati da fratello compatibile, mentre era più bassa in quelli trapiantati da donatore volontario. I fallimenti erano rappresentati soprattutto dalla tossicità da trapianto, in particolare dalla graft-versus-host disease (GVHD). Con il miglioramento delle tecniche trapiantologiche, si è assistito ad una riduzione della tossicità e mortalità da trapianto. In un recente studio, l’ EBMT (European Bone Marrow Transplant) ha riportato una mortalità del 20% nei trapianti da donatore familiare e del 31% in quei pazienti trapiantati da donatore volontario. Oltre alla tossicità legata alla procedura, il trapianto non assicura sempre la guarigione, perché la malattia può ripresentarsi anche nei bambini trapiantati in fase cronica, subito dopo la diagnosi. Sembra che l’uso dell’Imatinib sia prima che dopo il trapianto, ne migliori i risultati sia in quelli da donatore familiare che in quelli da donatore volontario, riducendo la probabilità sia della ricomparsa della malattia che della GVHD.
    Fino alla metà degIi anni ’80, i bambini che non potevano accedere al trapianto allogenico di midollo osseo venivano trattati con farmaci ad azione citoriduttiva come l’Idrossiurea (Oncocarbide), in grado di ridurre la massa leucemica, con una significativa remissione clinica ed ematologica in più del 90% dei casi. Purtroppo, il trattamento con questo farmaco ma non era grado di migliorare in modo significativo la storia naturale della malattia, né di prevenirne l’evoluzione verso la fase accelerata e/o la crisi blastica. A partire da metà degli anni ’80, sulla base dei risultati ottenuti negli adulti, l’interferone-alfa è stato utilizzato anche nei bambini con LMC senza donatore compatibile.  I dati disponibili su bambini con LMC trattati con l’Interferone sono molto scarsi, tuttavia i risultati ottenuti, anche se molto variabili, risultano essere simili a quelli riportati negli adulti.
    Lo scenario è radicalmente cambiato con l’utilizzo nella pratica clinica dell’imatinib nei bambini con  LMC nelle diverse fasi di malattia, con risultati sorprendenti sopratutto in quelli trattati in fase cronica. Agli inizi del 2000, il farmaco è stato utilizzato nei bambini sia per uso compassionevole che all’interno di studi clinici controllati, che hanno portato all’approvazione nel 2003 dell’uso del l’Imatinib  anche nei bambini con LMC. Nei primi studi clinici, oltre alla tollerabilità del farmaco, venivano stabilite anche le dosi-equivalenti rispetto a quelle utilizzate negli adulti.  E’ emerso che le dosi di 260 mg/m2/die e 340 mg/m2 /die utilizzate nei bambini corrispondevano, rispettivamente, a quelle di 400 e 600 mg utilizzati negli adulti. Negli studi clinici successivi, il dosaggio utilizzato nei bambini in fase cronica è variabile da 260 a 340 mg/m2/die. I risultati ottenuti nei bambini sono simili a quelli osservati negli adulti, con una risposta citogenetica completa variabile dal 60% al 90% e una risposta molecolare maggiore del 60-90% nei bambini trattati in fase cronica. I risultati migliori sono stati ottenuti utilizzando il dosaggio di 340 mg/m2/die, come riportato in uno studio pediatrico italiano, coordinato dall’Ematologia dell’Università di Roma Sapienza, in cui la risposta citogenetica completa è stata del 90%, con  una risposta molecolare maggiore dell’80% e molecolare completa del 65%.
    L’imatinib si è dimostrato un farmaco molto efficace, ma esistono dei casi in cui dopo aver ottenuto una risposta citogenetica e/o molecolare la malattia riemerge oppure dei casi in cui non si riescono ad ottenere i risultati auspicati, oppure la tossicità non permette di continuare il trattamento con Imatinib.  Per questi bambini, le opzioni terapeutiche possibili sono:

    • altri inibitori delle tirosin-chinasi, quali il dasatinib o il nilotinib;
    • Il trapianto allogenico, se è disponibile un donatore e se il trapianto non è controindicato;
    • L’aggiunta dell’interferone

    Il Dasatinib e il Nilotinib sono farmaci inibitori delle tirosin-chinasi, “sperimentali”, vale a dire non registrati per i bambini, e sono utilizzati in ambito di protocolli clinici controllati.

    Nei bambini con LMC che esordiscono o evolvono in una fase accelerata o in crisi blastica, è raccomandato un trattamento  secondo protocolli in uso nei principali centri pediatrici e che prevedono l’impiego degli inibitori delle tirosin-chinasi associati anche a chemioterapia. Nel caso di una crisi blastica,  la terapia è simile a quella utilizzata per le leucemie acute Philadelphia positive. Una volta ottenuto il ritorno in fase cronica è d’obbligo sottoporre il paziente a trapianto allogenico di cellule staminali.

    QUALI PROBLEMI POSSONO EMERGERE DURANTE LA TERAPIA CON IMATINIB?

    L’assorbimento e il metabolismo dell’Imatinib possono essere influenzati dalla concomitante assunzione di altri farmaci, alcuni dei quali ne aumentano mentre altri ne abbassano i livelli plasmatici. Una lista completa di questi farmaci è disponibile all’indirizzo http://medicine.iupui.edu/clinpharm/ddis.
    La formulazione in capsule dell’imatinib può comportare delle difficoltà nell’assunzione da parte dei bambini, soprattutto quelli più piccoli. In questo caso, possono essere preparate delle formulazioni liquide del farmaco da somministrare immediatamente dopo la preparazione.
    L’Imatinib è generalmente ben tollerato e gli effetti collaterali immediati sono molto inferiori rispetto a quelli osservati nella chemioterapia convenzionale. La tossicità a breve termine (nei primi 6 mesi) più frequentemente osservata è quella ematologica, in particolare neutropenia e trombocitopenia; mentre altri effetti collaterali precoci comprendono nausea, inappetenza, diarrea e alterazione della funzionalità epatica, eritema, molto frequenti la ritenzione idrica con edema ed i dolori osteoarticolari e muscolari. La terapia prolungata con Imatinib nei bambini può comportare un aumento del riassorbimento osseo e/o un rallentamento della crescita, soprattutto in quelli che hanno iniziato l’Imatinib in età pre-puberale. Questi effetti collaterali possono essere ridotti somministrando il farmaco allo stesso dosaggio per 3 settimane al mese, alternata ad una settimana di riposo, in quei bambini che hanno ottenuto una risposta molecolare completa persistente, come è suggerito dall’esperienza positiva del gruppo italiano.

  • Leucemie acute linfoidi del bambino

    Francesco Marchesi, Giuseppe Avvisati
    Unità di Ematologia, Policlinico Universitario Campus Bio-Medico (Roma)

    La leucemia linfoide acuta (LLA) è una neoplasia ematologica che origina dalla trasformazione neoplastica di un clone di linfociti B o T nel midollo osseo emopoietico. Come conseguenza di questa trasformazione, un singolo clone di linfociti B o T andrà incontro ad un arresto dei processi di maturazione cellulare e ad una esaltata attività di proliferazione cellulare che comporta una diffusa infiltrazione di elementi leucemici nel midollo osseo emopoietico e nel sangue venoso periferico.

    EPIDEMIOLOGIA: pur essendo una neoplasia rara, la LLA è il tumore più frequente nella popolazione pediatrica, con un picco di incidenza tra i 2 e i 5 anni di età. L’incidenza delle LLA si riduce poi progressivamente con l’aumentare dell’età, mantenendosi comunque elevata tra i 10 e i 29 anni e tra i 50 e i 69 anni di età.

    EZIOPATOGENESI: come la maggior parte delle neoplasie, anche per la LLA, è stata postulata una patogenesi multifattoriale, in cui concorrono fattori genetici e fattori ambientali. Tra i fattori ambientali noti come leucemogeni ricordiamo il benzene, le radiazioni e i pesticidi.

    DIAGNOSI: la diagnosi e la caratterizzazione di una LLA avviene mediante analisi diverse che vengono effettuate sia sul sangue midollare prelevato mediante l’aspirato midollare che sul sangue venoso periferico. Queste analisi sono:

    1. citomorfologia e citochimica: per mezzo di queste analisi si visualizzano al microscopio ottico le cellule leucemiche (blasti) del midollo osseo (citomorfologia); inoltre alcune colorazioni specifiche di queste cellule (citochimica) permettono di identificare il tipo di cellula. La quota di cellule leucemiche presenti nel midollo osseo emopoietico per fare diagnosi di LLA deve essere > del 20%
    2. immunofenotipo: questo esame ci permette, mediante anticorpi monoclonali, di identificare alcune specifiche proteine espresse sulla superficie delle cellule leucemiche (gli antigeni più comuni nelle LLA sono TdT, HLA-DR, CD19, CD10, CD22, CD79a, CD3, CD5, CD7, CD34)
    3. citogenetica: l’esame ci consente di individuare specifiche aberrazioni cromosomiche presenti nelle cellule leucemiche
    4. biologia molecolare: completa l’analisi citogenetica e consente di individuare specifiche mutazioni o alterazioni geniche presenti nel genoma delle cellule leucemiche.

    Oltre agli esami sopradescritti, per un completo e corretto inquadramento diagnostico e per una stadiazione di base è necessario inoltre effettuare alla diagnosi:

    1. Esame obiettivo per valutare l’eventuale presenza di linfoadenomegalie superficiali, di ingrossamento degli organi ipocondriaci, di paralisi dei nervi cranici, di ipertrofia testicolare possibile espressione di localizzazione di malattia
    2. Esame emocromocitometrico e esami ematici completi (compresi LDH, uricemia, coagulazione e marcatori virologici)
    3. Esame chimico-fisico, morfologico e immunofenotipico del liquor prelevato mediante rachicentesi per valutare di eventuali localizzazioni di malattia al Sistema Nervoso Centrale (SNC)
    4. Conta differenziale delle cellule nel sangue venoso periferico, in modo da stabilire il numero di cellule leucemiche circolanti
    5. TC total body per valutare eventuali incrementi dimensionali di linfonodi profondi, possibile espressione di localizzazione di malattia
    6. Valutazione cardiologica mediante ECG ed ecocardiogramma.

    CLASSIFICAZIONE: Nel 2008 la Word Health Organization (WHO) ha effettuato una revisione della classificazione delle LLA, limitando l’utilizzo della più datata classificazione del gruppo cooperativo Franco-Americano-Britannico (FAB), che voleva le LLA dividersi nelle 3 principali forme L1, L2 e L3, distinti per criteri unicamente morfologici.
    Pertanto, dopo questa revisione del 2008 da parte della WHO, le LLA vengono classificate come segue:

    Leucemia linfoide acuta B suddivisa in:
    Leucemia linfoide acuta B non altrimenti specificata (NAS)
    Leucemia linfoide acuta B con ricorrenti anomalie genetiche
    LLA con t(9;22)/BCR-ABL
    LLA con anomalie del gene MLL
    LLA con t(12;21)/ETV6-RUNX1
    LLA con iperdiploidia
    LLA con ipodiploidia
    LLA con t(1;19)/TCF3-PBX1
    LLA con t(5;14)/IL3-IGH

    Leucemia linfoide acuta T

    Sintomatologia: la sintomatologia d’esordio di una LLA è in genere tipicamente brusca e rapidamente progressiva; l’inizio dei sintomi generalmente non precede di molto la diagnosi.
    I sintomi e i segni di questa malattia possono essere schematicamente suddivisi in 3 categorie:

    • Segni e sintomi derivanti dalla soppressione della normale emopoiesi, che sono dovuti alla proliferazione e all’espansione delle cellule leucemiche nel midollo osseo emopoietico come: anemia (che determina spossatezza e pallore), riduzione della produzione dei globuli bianchi normali (che espone il paziente con LLA ad un elevato rischio di infezioni anche molto gravi) e riduzione del numero delle piastrine (che espone il paziente ad emorragie più o meno gravi).
    • Segni e sintomi derivanti dalla presenza di elementi leucemici nel sangue periferico e dal rilascio da parte di queste cellule di mediatori dell’infiammazione quali sintomi sistemici come febbre o febbricola, sudorazioni profuse, dolori osteo-articolari diffusi, dolori muscolari diffusi, perdita di peso, sensazione di malessere generale.
    • Segni e sintomi derivanti dall’infiltrazione tissutale dovuti alla infiltrazione da parte di elementi leucemici di numerosi organi. In particolare, sono frequenti all’esordio l’ingrossamento di linfonodi, della milza e del fegato. Più rara, ma possibile, è la presenza di infiltrazione testicolare. Un’importante caratteristica delle LLA è la spiccata tendenza ad invadere il SNC, determinando una meningosi leucemica, che può manifestarsi con sintomi neurologici molto variabili, dalla semplice cefalea, all’improvvisa comparsa di nausea e vomito “sine causa”, alla paralisi isolata di nervi cranici (es. paralisi del nervo faciale) fino ad arrivare a quadri gravi come convulsioni e coma.

    Prognosi: la prognosi della LLA nel bambino è drammaticamente migliorata negli ultimi decenni, risultando uno dei più grandi progressi in campo ematologico e in generale di tutta la medicina: oggi un bambino affetto da LLA trattato in un centro altamente specializzato e accreditato ha una probabilità di guarigione dalla sua malattia che si aggira intorno all’80%. Purtroppo, i risultati ottenuti nella popolazione pediatrica non sono stati ancora raggiunti nel resto dei pazienti, a dimostrazione del fatto che l’età gioca un ruolo fondamentale nella prognosi di questa malattia. Attualmente, solo il 30-40% dei pazienti adulti (18-60 anni) e meno del 10% dei pazienti anziani (> 60 anni) è in grado di ottenere la guarigione.
    Il miglioramento della prognosi di questa malattia osservato, soprattutto nei bambini, negli ultimi anni è dovuto in parte al miglioramento delle terapie specifiche e delle terapie di supporto, ma soprattutto al miglioramento della stratificazione prognostica di base, che ha permesso di modulare l’intensità dei trattamenti in base al livello clinico-biologico di aggressività della malattia. Negli ultimi anni sono stati delineati in maniera dettagliata e universalmente riconosciuti i principali fattori prognostici in grado di predire un andamento clinico più favorevole o più sfavorevole sia nei pazienti pediatrici che negli adulti: nella maggior parte degli studi clinici i pazienti affetti da LLA vengono divisi in 2 differenti categorie di rischio: rischio STANDARD e ALTO RISCHIO. Un elemento di notevole impatto sulla prognosi delle LLA è inoltre la valutazione della malattia minima residua (MMR) dopo la terapia, effettuata mediante tecniche di immunofenotipo o biologia molecolare: pazienti con MMR positiva dopo la terapia hanno una maggiore probabilità di andare incontro ad una ripresa di malattia e quindi possono beneficiare di un intensificazione del trattamento.

    PRINCIPALI FATTORI PROGNOSTICI NELLE LLA DEL BAMBINO E DELL'ADULTO

    FATTORI PROGNOSTICI FAVOREVOLI SFAVOREVOLI
    ADULTI
     Età  < 35  >60
     Globuli bianchi (n/mmc)  < 30.000  > 100.000
     Immunofenotipo  Mid T-cell  Early T-cell, mature T-cell
    Genetica/biologia molecolare del(9p) BCR-ABL, MLL-AF4, ipodiploidia, cariotipo complesso
    MMR dopo l’induzione < 0.01% > 0.01%
    Tempo per raggiungere la RC Precoce Tardivo (3-4 settimane)
    Risposta alla prefase steroidea Si (riduzione blasti ≥ 75%) No (riduzione blasti < 75%)
    BAMBINI    
    Età 1-9 <1 oppure ≥10
    Globuli bianchi (n/mmc) < 50.000 > 50.000
    Immunofenotipo Precursor B-cell Early T-cell
    Genetica/biologia molecolare Iperdiploidia, ETV6-RUNX1 BCR-ABL, MLL-AF4, anomalie MLL
    MMR dopo l’induzione < 0.01% ≥ 1%
    Tempo per raggiungere la RC Precoce Tardivo (3-4 settimane)
    Risposta alla prefase steroidea Si (conta blasti < 1000/mmc) No (conta blasti > 1000/mmc)


    Nei pazienti pediatrici vengono considerati come fattori di rischio aggiuntivi altri fattori: 1) fenotipo T; 2) malattia SNC all’esordio; 3) localizzazione testicolare all’esordio; 4) localizzazione mediastinica di malattia.

    Terapia: la terapia della LLA è molto complessa e ha una durata approssimativa di 2 anni. Esistono diversi schemi terapeutici e l’intensità del trattamento è diversa nella popolazione pediatrica, dove vengono usati regimi più intensivi. In generale, il programma chemioterapico previsto per la terapia delle LLA si può schematicamente dividere in 4 fasi:

    1. Chemioterapia di induzione: ha lo scopo di ottenere la scomparsa delle cellule leucemiche dal midollo osseo emopoietico e dal sangue periferico (remissione completa); si basa generalmente su schemi a 4 o 5 farmaci (Vincristina, Prednisone, Daunorubicina, Asparaginasi, Ciclofosfamide) e ha una durata approssimativa di 30-50 giorni. Alcuni schemi prevedono una seconda induzione basata sull’uso di altri farmaci (6-mercaptopurina, Citarabina, Ciclofosfamide);
    2. Chemioterapia di consolidamento: è molto diversificata a seconda dei diversi schemi. Generalmente è basata sull’uso di chemioterapia ad alte dosi. I farmaci più frequentemente utilizzati in questa fase sono Methotrexate, Citarabina, Ciclofosfamide, Etoposide, Mitoxantrone e Asparaginasi;
    3. Chemioterapia di reinduzione: generalmente basata sui medesimi farmaci dell’induzione, ma somministrati con modalità e dosaggi diversi;
    4. Chemioterapia di mantenimento: basata sulla somministrazione per via orale o intramuscolare di 6-mercaptopurina e Methotrexate. Durante questa fase, della durata di circa 1 anno, è necessario effettuare delle periodiche reinduzioni, utilizzando generalmente Vincristina e Daunorubicina.

    Durante tutte le fasi del trattamento è assolutamente necessario effettuare una profilassi delle localizzazioni del SNC mediante la somministrazione per via endorachidea (rachicentesi medicate) di chemioterapici (in genere Methotrexate o Citarabina). In media il trattamento di una LLA prevede circa 15-18 rachicentesi medicate per ridurre il rischio che, durante la terapia, si possa verificare una ripresa di malattia a livello meningeo. Una possibile alternativa, usata in casi selezionati, è l’uso della radioterapia cranio-spinale.

    Il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche (CSE) da donatore familiare compatibile e da donatore non consanguineo ad alta affinità ha delle precise indicazioni, specie nei pazienti pediatrici. Generalmente viene effettuato:

    • nei pazienti ad alto rischio in prima linea di trattamento;
    • nei pazienti resistenti dopo la terapia di induzione;
    • nei pazienti che vanno incontro ad un recidiva precoce di malattia.

    Non esistono delle indicazioni per il trapianto autologo di CSE, con il quale si ottengono dei risultati sovrapponibili alla chemioterapia di consolidamento/mantenimento.

    LLA PHILADELPHIA POSITIVE
    Un discorso a parte meritano le così dette LLA Philadelphia positive, ovvero quelle LLA in cui alla diagnosi viene riscontrata nei blasti leucemici la traslocazione t(9;22) che determina la formazione del gene di fusione BCR-ABL. Questa forma di leucemia è tipica del’età più avanzata e rara nella popolazione pediatrica, e costituisce circa il 30% delle nuove diagnosi di LLA nei pazienti con età maggiore di 60 anni. Da un punto di vista clinico si caratterizza per la notevole aggressività, la spiccata tendenza alla meningosi leucemica sin dall’esordio della malattia e alla prognosi pessima, dovuta alla elevata frequenza di recidive precoci dopo il raggiungimento della remissione completa. Pur essendo universalmente riconosciuta come un tipo di LLA ad alto rischio, oggi è possibile utilizzare nel trattamento di questa malattia alcuni farmaci “intelligenti” che sono in grado di inibire la proteina di fusione che deriva dall’anomalia cromosomica presente nelle cellule leucemiche e che, almeno in parte, è responsabile del processo di trasformazione neoplastica. Questi farmaci sono essenzialmente 2, l’Imatinib e il Dasatinib. Al momento attuale sono in corso molti studi che hanno lo scopo di valutare come meglio utilizzare queste terapie e come poterle combinare con la chemioterapia. Ad oggi, le linee guida internazionali indicano la necessità di trattare in prima linea questi pazienti con l’associazione dell’Imatinib con la chemioterapia di induzione e di prevedere, per i pazienti eleggibili con donatore HLA-compatibile familiare o non correlato, l’intensificazione con il trapianto allogenico di CSE in prima remissione completa. Non è al momento chiaro se questi pazienti possano beneficiare di una terapia di mantenimento con l’Imatinib dopo il trapianto. Per i pazienti senza donatori disponibili, è bene associare l’Imatinib a tutte le fasi della chemioterapia di consolidamento/mantenimento.
    Infine, nel 2007 uno studio del gruppo italiano GIMEMA ha permesso di dimostrare la notevole efficacia di una terapia di induzione basata sull’uso dei corticosteroidi in associazione al solo Imatinib o Dasatinib nei pazienti con nuova diagnosi di LLA di età maggiore ai 60 anni. I brillanti risultati ottenuti in questa tipologia di pazienti (con sopravvivenze mediane nettamente superiori rispetto a quelle ottenute con la terapia convenzionale) ha spinto molti gruppi cooperativi a sperimentare terapie di induzione non basate sulla chemioterapia anche nei pazienti più giovani. I risultati di questi studi ancora non sono disponibili, ma ci sono notevoli aspettative da parte della comunità scientifica mondiale.

    LLA L3
    La forma di LLA che viene nominata dal sistema di classificazione FAB come L3 è una entità nosologica a sé stante, sia da un punto di vista clinico che biologico e costituisce circa il 4-7% di tutte le forme di LLA. La LLA L3 è una forma di leucemia ad elevatissimo livello di aggressività, che da un punto di vista clinico è di fatto indistinguibile dalla forma leucemizzata del linfoma di Burkitt. Per tal motivo alla diagnosi è frequentemente caratterizzata dalla presenza di diffuse linfoadenomegalie e masse neoplastiche di elevate dimensioni, con una spiccata tendenza al coinvolgimento del SNC. L’esordio della malattia è brusco e sono sempre presenti sintomi sistemici di rilievo. Le cellule leucemiche della LLA L3 presentano almeno 3 caratteristiche peculiari che ne consentono una facile distinzione dalle altre forme di LLA:

    • Da un punto di vista morfologico sono caratterizzate dalla presenza costante di vacuoli citoplasmatici, che risultano quasi patognomonici di questa malattia;
    • Da un punto di vista immunofenotipico sono caratterizzate dall’espressione sulla superficie cellulare di immunoglobuline monoclonali, dalla frequente espressione del CD20 e dalla mancata espressione di marcatori di immaturità (come TdT, HLA-DR e CD34);
    • Da un punto di vista genetico sono caratterizzate dalla presenza della traslocazione t(8;14) che porta alla abnorme espressione del gene c-myc, responsabile della perdita del normale controllo della proliferazione cellulare.

    La terapia di questa forma di LLA si discosta nettamente dalla altre: infatti, sono stati ottenuti dei risultati notevoli con l’utilizzo di schemi polichemioterapici ad alte dosi somministrati in maniera sequenziale ed intensiva basati sull’uso di farmaci come il Methotrexate ad alte dosi, la Citarabina ad alte dosi, la Ciclofosfamide a dosi iperfrazionate, la Vincristina, l’Ifosfamide, la Adriamicina e l’Etoposide. Inoltre, un ulteriore miglioramento nella prognosi di questa malattia è stato ottenuto associando a questi schemi chemioterapici l’uso dell’anticorpo monoclonale anti CD20 Rituximab. Questi schemi permettono di ottenere una guarigione di questa malattia in percentuali che si aggirano tra il 70 e l’80% a seconda dell’estensione della malattia all’esordio: per tale motivo, non è indicato l’uso dell’intensificazione con trapianto allogenico di CSE in prima remissione completa.

 

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