Il valore di uno zero

    La mia storia inizia dalla scoperta della vita dentro di me, una sorellina o un fratellino per il mio piccolo Jacopo; era già la seconda esperienza di gravidanza, ma sentivo che qualcosa non era uguale, sentivo di spegnermi giorno dopo giorno e la mancanza di forza si univa a segni strani sul mio corpo, come lividi e linfonodi, che destavano in me mille dubbi.

    Fu circa una settimana dopo che la ginecologa mi consigliò di fare dei test per capire se avessi qualche infezione, ma tutto risultò negativo.

    Quanto più la vita cresceva dentro di me, tanto più mi indebolivo, come un fiore che anziché crescere, appassisce sempre di più; l'emocromo rivelò che il mio organismo aveva perso il suo equilibrio ancestrale e che i linfociti si riproducevano all'impazzata: 90% di blasti, Leucemia Linfoide Acuta.

    Il ricovero mi portò via da mio figlio di 21 mesi, dal bagnetto, dai suoi giochi, dai colori della sua splendida infanzia, dalla mia casa, dalle mie sicurezze quotidiane, dalle abitudini, dai pensieri giornalieri; c'eravamo io e mio marito, in una stanzetta del pronto soccorso, distrutti ed esanimi, senza più lacrime, stretti in un inconsolabile abbraccio, mentre dalla finestra arrivavano le canzoni di un karaoke a villa T., una musica lontana per noi, quasi fastidiosa.

    Dal giorno dopo tutto mi arrivò addosso come una tempesta, un mare di informazioni, di parole, di definizioni; si trattava di philadelphia positivo, una mutazione genetica di un cromosoma, e mi dissero che nel diagramma della sfortuna, ero fortunata perché esisteva da una decina di anni la cura specifica: una pillola che mi avrebbe curata (inibitore della tirosinchinasi), evitando molta chemioterapia e forse anche il trapianto di midollo.

    Intanto la vita continuava a crescere dentro di me, mi chiedevo come si fosse generata in un corpo già malato, come facesse a crescere, ma la risposta arrivò tanto tempo dopo, quando compresi che forse aveva avuto il compito di rivelarmi il più velocemente possibile che stavo male.

    Dal giorno in cui gli dissi addio, iniziarono le cure, difficili, la presa di coscienza, lì dentro, dove i dottori si prendevano cura di me, con sorrisi rassicuranti, abbracci e parole che davano coraggio, mentre la mia compagna di stanza infondeva in me quel concetto astratto, ma concreto, di speranza.

    Si susseguirono altri ricoveri, chemioterapia e caduta dei capelli, tutto in tre velocissimi mesi, in cui mi perdevo i primi discorsi sensati di mio figlio, i suoi sorrisi, le sue lacrime, le sue passeggiate al parco.

    Durante le notti insonni in ospedale bramavo di ritornare alla mia routine con nuove consapevolezze e con la voglia di soffermarmi su ciò che in quel momento mi sfuggiva, come l'odore di mio figlio, la sensazione delle lenzuola fresche del mio letto o della sveglia che suona la mattina.

    Quando tornai a casa dopo l'ultimo ricovero, temevo che non mi avrebbe riconosciuta, avevo il timore di togliermi la parrucca e di fargli vedere quanto mi sentissi disperata; non volevo che il male lo intaccasse, non volevo fargli sentire la mia angoscia senza riuscire a consolarlo.

    Ma inaspettatamente era a conoscenza di tutto, senza il bisogno che io glielo raccontassi. Infatti fu lui a consolarmi. Con i suoi occhi grandi, la bocca spalancata, guardava la mia testa pelata e diceva: “Mamma, sei ritornata piccola!”.

    Queste parole diedero il senso a tutta la mia sofferenza, le sue manine accarezzavano la mia testa e la sua incoscienza rendeva tutto normale e mi aiutava a spazzare via la crudeltà della sofferenza di quei giorni.

    Iniziava così nuovo percorso, una rinascita e, aggrovigliata all'amore dei miei cari, imparavo di nuovo a camminare e, ad ogni passo, sentivo tornare le forze e la voglia di vivere si faceva sempre più impetuosa.

    Sono passati tre anni ed io sono ancora qui; quando le persone mi definiscono forte e magica, credo che sia il loro modo di esorcizzare la paura. Io sono solo più consapevole della mia interiorità, ho avuto modo di conoscermi fino in fondo ed amo la vita, ogni singolo istante, ogni respiro che mi fa sentire viva e partecipe di me stessa.

    Oggi più che mai comprendo le parole dei medici, e la fortuna di cui parlano è rappresentata dalla Ricerca e da chi, come la mia dottoressa, fa dello studio una missione di vita; a questo si aggiunge il totale senso di sicurezza, di affetto e di fiducia che lei mi trasmette anche senza parole; l’inibitore oggi funziona, domani non lo so ma, grazie a lei, il mio bicchiere è mezzo pieno.

    Concludo dicendo che, prima di ammalarmi, avevo la fobia delle pillole e mi rifiutavo di ingoiarle, adesso invece è proprio una pillola a salvarmi la vita, un paradosso che ad ogni mio risveglio mi fa sorridere e sentire fortunata, incerta sul futuro, ma consapevole che ogni giorno è un regalo.

    Maria Luisa

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