Un ricordo dal sapore dolceamaro

    Ciao, sono Emanuela e ho 23 anni. L’anno scorso mi è stato diagnosticato un Linfoma di Hodgkin al II stadio bulky e adesso, dopo 6 di cicli di chemio e 12 sedute di radio, sono in remissione completa.

    La storia che vorrei condividere è più che altro una riflessione che ho scritto di getto esattamente un anno dopo la diagnosi, raccogliendo le emozioni di quel giorno e rendendomi conto di quanto quella giornata, nonostante tutto, mi abbia regalato tanto e sia stata a modo suo bella e preziosa, per quanto triste e difficile.

    Spero che tante altre persone, soprattutto giovani come me che magari hanno ricevuto la diagnosi da poco e hanno paura, possano ritrovarsi e prendere un po’ di coraggio e ottimismo dalla mia esperienza.

    Esattamente un anno fa mi veniva comunicata quella notizia che, nell’immaginario comune, è forse la peggiore che una persona possa mai ricevere nella sua vita, esclusa ovviamente la morte di un parente o di un amico.

    Cancro, tumore maligno, linfoma. Parole che fanno paura.

    Quante volte mi sarà capitato, negli anni precedenti, di leggerle o sentirle con l’indifferenza di chi è convinto che possa capitare solo agli altri. E invece no, questa volta il mostro stava crescendo proprio dentro di me.

    Non dimenticherò mai il tuffo al cuore che ho provato appena ho letto “Linfonodo sovraclaveare destro sede di Linfoma di Hodgkin”.

    In quell’istante qualcosa è irrimediabilmente cambiato in me, neanche saprei come spiegarlo. Mi sentivo lucida e razionale, durante quella lunga ora nello studio dell’ematologa, ma adesso mi rendo conto che era così solo perché una parte di me si era distaccata da tutto, come se guardasse la scena dall’esterno, altrimenti avrebbe fatto troppo male assorbire la botta tutta d’un fiato.

    Ricordo ancora vagamente il susseguirsi di quegli attimi così veloci e concitati ma allo stesso tempo quasi ovattati e anestetizzati.

    L’ematologa disegna dei linfociti su un foglio per illustrarmi bene che cosa mi sta succedendo, poi gira pagina e scrive a caratteri cubitali A-B-V-D, spiegandomi cosa vorranno dire per me quelle lettere nei mesi seguenti.

    Parla di 80% di remissioni, che spesso diventano poi guarigioni. Mi dice che sono giovane e forte, che la battaglia comincia dalla testa.

    Poi commenta che i miei esami del sangue sono perfetti. Ricordo solo che ho risposto di getto “Che culo!” e che abbiamo riso tutti.

    E poi quel senso di assurdità e straniamento nel sentire le parole “Cominciamo domani, non c’è tempo da perdere”.

    A dire il vero ho rimosso la scena, mi è rimasto solo un vago senso di sbigottimento, perché la realtà è che a 22 anni non sei mai pronto per iniziare una chemio il giorno dopo.

    Eppure c’è qualcosa di più, rispetto a questo mucchio di immagini strappate dal giorno più bizzarro e traumatico della mia vita. È un qualcosa che riesco pienamente a cogliere soltanto adesso, col senno di poi, regalatomi da questi 12 mesi, e si tratta fondamentalmente dell’unica cosa che davvero mi resta dentro di quel giorno.

    Che cos’è? È un intenso sapore dolceamaro, tutto qui. Tanta amarezza. Già pochi giorni dopo avevo trovato il coraggio e l’onestà mentale di ammettere che faceva male, che mi dispiaceva per me stessa per tutto ciò che ho passato.

    Oggi però assaporo in modo più concreto cosa significhi davvero questo amaro: è l’amaro di chi a 23 anni si guarda indietro, vede sé stessa su quella sedia di ospedale, con i capelli lunghi e il braccialetto arancione, e si accorge con un po’ di rammarico che quella ragazza non c’è più.

    È come se con quel giorno fosse calato un leggero velo di ombra, che ha spazzato via per sempre una parte di me, un pezzo di vita, portandosi via anche qualche grammo di spensieratezza.

    Vorrei tanto poter tornare indietro e abbracciare quella ragazza che ancora non aveva idea di ciò che la vita aveva in serbo per lei nei mesi seguenti. Vorrei poterle dire “Guarda che sei sempre tu, sono sempre io, andrà tutto bene”.

    Vorrei trattenere ancora per qualche istante quell’ultimo pezzo di vita, prima che il velo cali e che la centrifuga cominci a girare sempre più forte.

    Strano questo desiderio: adesso mi sento più forte e più sicura di me, sto iniziando piano piano a realizzare i miei sogni con una consapevolezza e una gratitudine nei confronti della vita che prima non conoscevo.

    Insomma, non vorrei davvero tornare a prima, eppure sento lo stesso questa sorta di attaccamento a quegli ultimi istanti di vita prima dell’inizio della lotta, come se una parte di me volesse difendersi da tutto il peso dell’esperienza, delle cicatrici, dei pezzi da rimettere insieme una volta finito tutto, cosa che è sì bella ma anche faticosa e a volte dolorosa.

    È proprio questo a causarmi amarezza: il pensiero che in quel preciso istante ogni certezza ha preso forma, facendo prendere bruscamente alla mia vita un’altra piega e rimettendo in discussione i progetti, le priorità, ogni aspetto della mia quotidianità da lì per 8 lunghi mesi; il pensiero che in un certo senso non si torna più indietro, perché un piccolo angolo della tua mente e del tuo cuore serberà per sempre la cicatrice di quel mostro, come a ricordarti che tutto può succedere e che tu sei piccola così.

    Non sempre questo amaro fa male: spesso il suo saporaccio viene coperto da quello del miele, dello zucchero, del curry, del limone e da tutti i molteplici gusti che la vita assume.

    A volte però torna in primo piano, basta un sogno o un ricordo, e allora sì che fa un po’ male, fa un po’ rabbia, ti fa venire voglia di urlare quanto era bella la vita prima della diagnosi e prima di sapere cosa vuol dire tenere duro per continuare a vivere.

    Eppure il sapore è anche dolce. Può sembrare assurdo che si possa conservare un ricordo dolce del giorno in cui ti è stato diagnosticato un linfoma, ma ebbene sì, nel mio cuore è rimasta intrappolata anche questa sensazione. 

    Quel giorno mi ha dato una lezione preziosa, la cui potenza e vitalità non sono neanche lontanamente descrivibili a parole. Mi ha insegnato che puoi ridere anche mentre ti viene diagnosticato un cancro, insieme ai tuoi genitori e alla dottoressa.

    Non perché non hai paura o non sei disperata, ma semplicemente perché capisci che la vita deve andare avanti come prima e più di prima, e che tu alla malattia puoi ridere in faccia lo stesso, perché la risata un linfoma non te la può togliere, come non te la può togliere neppure la chemio.

    Forse la maschera per la radio sì che te la toglie, perché non riesci neanche a muovere le labbra, ma tanto dopo 30 minuti puoi ricominciare a sorridere di nuovo.

    Quel giorno mi ha insegnato che puoi goderti serenamente la ricompensa di un panino alla cotoletta e di una birra con mamma e papà alle 16.30, dopo 8 ore di ospedale a digiuno, perché anche se la tua vita è appena stata stravolta ti viene fame lo stesso e scopri che guarda caso mangiare e bere ti piace ancora, anzi dopo una giornata chiusa in ospedale tutto prende un gusto ancora più buono, e poi le battaglie non si cominciano mai a stomaco vuoto e quella è pure l’ultima birra che ti scolerai per un po’ di mesi.

    Quel giorno mi ha insegnato che puoi scherzare, camminare e parlare con la tua amica del cuore come sempre, anche se il giorno dopo comincerai la chemio, perché il mondo nonostante tutto non crolla e ciò che era bello e importante prima è bello e importante pure adesso, anzi lo è di più perché sai che devi goderti ogni cosa con la consapevolezza di chi inizia a comprendere che nulla ormai è scontato, ma anche con la leggerezza di chi ha semplicemente voglia di continuare a parlare, ad ascoltare, a camminare, a scherzare, a commuoversi, a sognare, ad avere 22 anni.

    Quel giorno mi ha insegnato che puoi sentirti energica e indistruttibile anche mentre sei fragile e la tua vita minaccia di cambiare per sempre, perché in quel momento si sprigiona da dentro di te una forza che non pensavi di avere, quella stessa forza che ogni volta che starai male ti porterà a ripetere “Lo faccio solo per vivere, tutto qui”.

    Quel giorno mi ha insegnato che non c’è niente che non possa essere affrontato con il sorriso, con l’affetto, con la perseveranza dei propri piccoli riti e delle proprie passioni anche in mezzo alla tempesta, perché in realtà lo sai benissimo che niente sarà più come prima, eppure te ne freghi, perché non gliela darai vinta mai e perché solo adesso sai che puoi essere felice lo stesso, che non ti manca niente in fondo. Anche se alla fine quei linfonodi erano niente meno che un linfoma, anche se il cocktail di ABVD comincia domani mattina e tu non hai neppure idea dei sorci verdi che ti farà vedere. 

    Quel giorno mi ha insegnato lo stupore nella normalità delle piccole cose, la saldezza nella burrasca, la voglia di andare avanti nella difficoltà, la grinta di fare come se niente fosse. 

    Quel giorno mi ha insegnato la dolcezza che si nasconde in ogni angolo della vita, da una stanza di un reparto di Ematologia a uno scorcio della Stazione Centrale al tramonto, dall’emozione di una poesia a un pianto liberatorio sotto la doccia, dall’affetto delle persone care, alla voglia di poter stare bene e ricominciare di nuovo.

    Semplicemente perché, nonostante tutto, “La Vita peserà di più sulla bilancia”.

    Emanuela

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