Cicatrici
Mi chiamo Letizia e sono un architetto.
Mi sono sposata nel 2010, dopo solo un mese di matrimonio ho scoperto di essere incinta e quindi nessuna partenza per il viaggio di nozze in Australia, ma tanta felicità per la nuova e grande avventura che ci aspettava!
Nei mesi di attesa abbiamo naturalmente preparato quasi tutto, progettato una casa nuova con una cameretta enorme, fatto i primi acquisti per farci trovare pronti al nuovo arrivo.
Ma purtroppo al 6° mese sono stata costretta ad interrompere la gravidanza per preclampsia severa (scopro di essere autoimmune, di avere le piastrine basse, la pressione alta ed un blocco renale).
Tutto condensato in una settimana. Uno squarcio nel cielo sereno. Come un terremoto, un bombardamento.
Nel febbraio 2011 vengo ricoverata di urgenza. Partorisco Leonardo che nasce, viene battezzato da mio marito e muore nello stesso giorno: la cosa più innaturale e dolorosa che può succedere ad una donna, ad un uomo, ad una coppia, ad una madre, ad un padre....
Parto naturale indotto, perché nelle mie condizioni non avrei superato un cesareo, per mettere al mondo una creatura con pochissime speranza di vita.
Leonardo nasce poco più di 350 grammi e non ce la fa. Ha vissuto per soli sei mesi nel mio grembo.
Io rimango in vita, mi trasferiscono in Nefrologia perché sarebbe troppo doloroso nelle mie condizioni dormire in stanza con mamme con il pancione: seguono una biopsia renale, una lunga terapia a base di cortisone, esami del sangue settimanali e controllo della pressione quattro volte al giorno.
Finalmente con il passare del tempo mi riprendo, supero anche due aborti spontanei alla quinta e sesta settimana e successivamente decidiamo quindi di fare domanda di adozione (decisione già condivisa da me e mio marito nel percorso prematrimoniale e strada percorribile forse per reagire al dramma della perdita di un figlio).
Finalmente nel settembre 2012 sembra che possiamo iniziare il corso per genitori adottivi ma, dopo un dolore continuo alla spalla, inappetenza e dimagrimento, alla visita in ematologia mi sputano in faccia che la mia autoimmunità mi ha regalato un Linfoma Non Hodgkin IV stadio a grandi cellule B nel mediastino.
Non avevo mai sentito parlare della mia malattia, però avevo sentito parlare di chemioterapia e questo mi era bastato per guardare negli occhi mio marito e fare scendere lacrime silenziose per la paura di dover affrontare un altro dramma.
La parola "linfoma" abbinata alla parola “chemioterapia” mi ha fatto tanta paura, anzi, ci ha fatto tanta paura, era troppo vicino a quello che ci era successo ed entrambi non sapevamo se avevamo ancora le forze per superare anche questo.
Ricordo l’abbraccio caldo con mio marito con le lacrime agli occhi e il cuore pieno di ansia che mi scoppiava.
Non sopporto ancora oggi l'idea che la mia storia possa ancora suscitare sentimenti di compassione.
Ti senti sfortunata e, anche sei hai familiari e amici, sai che dovrai affrontarla tu e solo tu con tuo marito accanto, già provato da tutto quello accaduto fino a quel momento.
Sfortunata.
O fortunata (se penso di aver superato tanta sofferenza e malattie così gravi).
Tutto era cominciato al rientro dalle vacanze in Sicilia quando andavo a fare la tecar terapia per il mal di spalla che non mi faceva dormire la notte (la massa 10x8 cm al mediastino comprimeva tendini e cuore, quindi dolore e fame d’aria).
Poi quel “bozzo” sul petto, duro, indolore ma strano, quindi il massaggiatore che mi faceva la tecar mi suggerisce di andare immediatamente dal medico che mi prescrive d’urgenza una radiografia toracica.
Il radiologo non mi fa aspettare per ritirare il referto, me lo consegnano subito e leggendolo da sola in macchina capisco che qualcosa non va, quindi porto il referto dal medico e lui mi fa immediatamente l’impegnativa per andare urgentemente a fare una visita ematologica.
Di quel periodo di ricovero durato un mese per esami vari per arrivare ad una diagnosi precisa (biopsia midollare, rachicentesi, biopsia tac guidata al mediastino, esami del sangue giornalieri) ricordo soprattutto il caro sorriso e le smorfie di dolore in silenzio della mia compagna di stanza che se ne è andata per un mieloma quando io soffrivo degli effetti collaterali della rachicentesi (mal di testa per 20 giorni che non mi permetteva neanche di alzare la testa dal cuscino).
Ma ricordo soprattutto la compagnia di mio marito, della mia famiglia, delle mie sorelle, della mia amica: una costante e importante presenza in quel lunghissimo mese in ospedale.
Ho voluto sempre scrivere la mia storia e scrivo ancora perché il cervello vorrebbe dimenticare tutto, vorrebbe dimenticare il dolore, la rabbia, la sofferenza, ma pur accettandolo e superandolo ti rimane tutto dentro, ti senti piena, fino all’orlo e vuoi liberartene.
Forse si può dimenticare l’intensità del dolore fisico, non riesci a quantificarlo, ma sicuramente senti (e tuo marito sente) tutto il peso di quello che la vita ti ha dato e che ti ha tolto ingiustamente ed improvvisamente, senza nessun preavviso.
Io vorrei svuotarmi, togliermi dalle spalle questo carico troppo pesante, troppo ingombrante, anche se spesso lui mi prende sotto braccio per aiutarmi.
Anche lui è fragile. Ed è stata per entrambi un’altra dura prova da superare dopo la prima altrettanto dura e insopportabile. Una continua prova, fisica e mentale, un altro esame da superare.
Dopo il secondo ciclo di chemioterapia (ne ho fatti 6 ogni 14 giorni senza saltarne uno, probabilmente mi ha aiutata il fatto di non essere mai stata una fumatrice e di aver seguito sempre una alimentazione varia e corretta, tanto da non essere né mai sottopeso né mai sovrappeso) ho iniziato ad avere i primi veri problemi fisici.
I capelli si staccavano letteralmente a ciocche prendendoli tra le dita, iniziavo a stancarmi con facilità, a risentire del fatto che le mie uscite dovevano necessariamente essere limitate come andare in ospedale o andare dalla mia mamma per non restare sola a casa quando mio marito era al lavoro; risentire di non poter ricevere visite da chi era anche semplicemente raffreddato e quindi privarmi della gioia della presenza spensierata ed affettuosa dei miei nipotini.
Ogni 14 giorni, per sei cicli, mi recavo quindi in ospedale per tre giorni: il primo per prelievo emocromo e visita pre chemio, il secondo ed il terzo per la chemioterapia immunosoppressiva RChop (la rossa).
Sola nella stanza con altri malati, o sdraiati a seduti sulle poltrone.
Tornavo a casa stanca con la mia siringa per la crescita dei globuli bianchi da tenere in frigo (Mio marito mi faceva questa sulla spalla e ogni sera l’eparina sulle cosce).
L’effetto collaterale principale della puntura sulla spalla era il mal d’ossa. Mi facevano male le gambe ed il bacino.
Il fastidioso mal d’ossa si protraeva per alcune ore, io sempre sdraiata a letto o sul divano in uno stato di dormiveglia disturbata dal dolore, dalla tachicardia.
Tra i tanti farmaci che dovevo prendere in pastiglie (la mia mente ormai li vedeva grandi come monete da 2 euro, da non riuscire a mandar giù da quella gola in fiamme), quello che mi indispettiva di più era l’eparina, un anticoagulante anche questo somministrato tramite iniezione sottocutanea sulle cosce, ogni santo giorno.
Non so perché ce l’avessi tanto con l’eparina, forse perché dovevo farla ogni giorno e mio marito non trovava più un punto libero sulle cosce piene di bozzi e lividi.
Non avendo mai neanche provato a farmi le iniezioni da sola, era lui ad occuparsene, come la doccia, la vestizione e la crema idratante corpo (il cortisone in vena mi faceva squamare la pelle e io non avevo la forza per fare qualsiasi movimento o semplicemente stare in piedi).
Nella mia posizione sdraiata mi sentivo come schiacciata sul divano: ormai non avevo la forza nemmeno di stare seduta e stare sdraiata non alleviava neppure il dolore o la continua tachicardia, come se continuassi a correre in salita senza meta, senza vedere al di là della montagna, senza sapere cosa c’era dietro la salita, senza forze senza orizzonte, senza nulla se non il pensiero fisso del dolore e come alleviarlo…
Stando ferma sembrava, o mi illudevo, di sentire meno fastidio quindi cercavo di dormire pur avendo dolori.
Un dormiveglia scandito ogni due ore dall’apertura degli occhi e dal sorseggiare l’acqua (prescrizione importante era di berne più di due litri al giorno).
Non ero decisamente in forma, dormivo un paio d’ore e poi mi risvegliavo per i dolori alle gambe, al collo, alla pancia e la posizione scomoda, sempre supina (di fianco, nella mia posizione abituale, era per me impossibile).
Durante la notte, a casa, seduta sulla poltrona alle tre del mattino, aspettavo con ansia le 6:00 per poter fare colazione e avere la speranza che cambiasse qualcosa nel nuovo giorno.
Invece ogni giorno era uguale al precedente ma con dolori nuovi: vesciche e ulcere alla bocca, esofago ed apparato digerente che bruciava come se avessi ingerito delle puntine, male alle ossa, alle vene, al petto, alla pancia, dappertutto, non c’era un punto rilassato e non sofferente.
Ricordo il fiatone per andare semplicemente in bagno, la fatica nello scendere dalla macchina o alzarmi dal letto, pur sempre aiutata da mio marito.
Il tempo passava inesorabile e i giorni e la sofferenza erano sempre uguali, anzi aumentavano.
Sul letto del day hospital durante i cicli chemioterapici guardavo ogni volta un ragazzo giovanissimo, tatuato e dimagrito, e persone anziane nella mia stessa stanza con attaccate quelle flebo come polpi con tentacoli lunghi che ti tolgono piano piano la vita dallo sguardo cambiandoti il colore della pelle, rendendoti trasparente.
Sembravamo in gabbia, impauriti, guardavamo le infermiere supplicandole di non farci male solo anche per infilare l’ago e non accelerare troppo l’infusione.
Facevano male le vene, le gambe ad ogni tentativo di cambiare posizione o semplicemente per alzarsi per andare in bagno con il carrello porta flebo.
La pipì era rossa/arancio dopo, la guardavi pensando che cosa avevi dentro, che schifo avevi dentro quel corpo gonfio e sofferente che sentivi come un contenitore che non ti apparteneva più.
Il brutto, il male, ma anche la speranza di guarire in quel corpo gonfio per il cortisone, pesante, brutto che non riconoscevi più come tuo guardandoti allo specchio.
Non ce l’avrei fatta a sopportare un trapianto di staminali o la radioterapia o chi sa quale altra cura possibile. Ne sono sicura. Meno male che non le ho dovute affrontare.
Il cervello vagava, le pensava tutte.
E intanto le giornate passavano piano, ma in fretta, perché scandite da dormiveglia e medicine.
Il 25 dicembre ho festeggiato il Natale dalla mia mamma con le mie sorelle e le rispettive famiglie. In regalo più di un libro e più di un plaid.
Nel frattempo ero sempre più stanca. Stanca, stanchissima fisicamente, come sempre in gara ad una maratona dove non vedi mai l’arrivo: d’altra parte l’astenia fa parte degli effetti collaterali delle cure, e durante le visite al resoconto dei malesseri risultava normale l’anormalità.
Perché i medici dicevano che era tutto ok ed ero quindi sempre pronta ad un altro ciclo quando, invece, mi sentivo distrutta?
Forse è stata proprio questa la mia salvezza, non aver fatto scendere mai i valori al di sotto del minimo e aver potuto fare tutte le chemio di fila.
E così il 27 dicembre ero alla sesta ed ultima chemioterapia ed ero stufa e gonfia anzi, gonfissima.
Il dottore non capiva se era il cortisone che mi aveva gonfiata a dismisura o se erano i linfonodi ingrossati: ero dura e tirata sulla schiena, l’addome, il collo, il viso, cosi in 5 giorni da un’infusione in vena di 100 mg sono passata a zero.
Risultato: febbre a 39°c, trasporto in ambulanza al pronto soccorso e ricovero per altri 10 giorni con antibiotici in vena.
Adesso che “sto bene” mi sono accorta di avere tanto da dare e di quanto l'esperienza vissuta, e di cui allora non ero forse pienamente consapevole, abbia contribuito ad improntare tutta la mia vita in maniera diversa.
Abbiamo riaffrontato il percorso dell’adozione senza troppe illusioni, ma determinati e speranzosi di una rivalsa nei confronti della vita. Ci siamo iscritti di nuovo al corso e cosi abbiamo iniziato i colloqui con assistente sociale e psicologa. Ma purtroppo il giudice non ci ha dato idoneità, forse perché bisogna aspettare 5 anni dall’ultima chemioterapia o forse perché non siamo veramente pronti visti i due traumi subiti, così importanti e ravvicinati, forse doveva andare così e basta. Mi hanno detto che devo affrontare anche un percorso con uno psicoterapeuta.
Mio marito, appassionato di foto, quando me la sono sentita, ha voluto immortalare il mio corpo provato dalla malattia e io oggi ho voluto vedermi in quelle immagini scattate, perché non mi sono mai guardata, ho sempre osservato gli altri pazienti, i medici, le flebo, i macchinari, e oggi sono orgogliosa della persona ritratta in foto, di quella me che ha avuto la forza di vincere un’altra grande guerra da sola.
La mia parola d’ordine oggi è speranza.
La mia preghiera è un pianto, non un pianto di disperazione, ma lacrime di comprensione, per me e per tutti quelli che soffrono o che hanno sofferto.
Adesso mi piace pensare che mio figlio, nostro figlio Leonardo, sia un angelo che mi guarda sempre dal cielo, che mi ha sempre guardata dal cielo. Anche se non sono morta, un pezzo di me è in cielo. Spero sia in pace, che non abbia sofferto, che mio marito lo abbia liberato leggero e sereno.
Spero di avere sempre la stessa forza per vivere e aspettarmi delle sorprese, delle belle sorprese, perché me lo merito, ce lo meritiamo!
Grazie per la lettura di queste parole scritte e di quelle non scritte. Anche solo il pensiero che la mia storia arrivi a chi la vuole ricevere, mi commuove, vorrei avere l’illusione di sentirmi ogni volta più leggera.
Non ho nessuna cicatrice visibile sul mio corpo, ma mi commuove il solo pensiero che chi legge possa vederle dentro di me.
Letizia
Storie di combattenti